FOSSE ARDEATINE: DA SETTANT’ANNI RESISTERE A QUELLI CHE INSINUANO
di Alessandro Portelli
[Il 25 marzo 1944, i lettori dei giornali romani trovavano il seguente comunicato dell'agenzia Stefani, emanato dal comando tedesco della città occupata di Roma alle 22.55 del 24 marzo:«Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di Polizia in transito per Via Rasella. In seguito a questa imboscata, 32 uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti.La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento anglo-americano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito». L'annuncio della rappresaglia fu dato quando l’esecuzione era già avvenuta. Per anni si è detto che i partigiani avrebbero potuto costituirsi e salvare degli innocenti, ma nessun manifesto fu affisso sui muri. Né vi fu alcun tentativo di catturare i responsabili dell’azione.
Eppure la memoria repubblicana ha costruito intorno a via Rasella uno dei processi morali più pesanti a carico dei partigiani.]
Eppure la memoria repubblicana ha costruito intorno a via Rasella uno dei processi morali più pesanti a carico dei partigiani.]
Via Romagna via Tasso principale
ventitrè marzo fu la ricorrenza
di chi ci fè passà tempi brutali.
Li tedeschi la presero avvertenza;
chi si ha da vendicà non ha più pazienza
chi bomb’a mano chi co’ la rivoltella
tedeschi morti pe’ la via Rasella
(Egidio Cristini)
ventitrè marzo fu la ricorrenza
di chi ci fè passà tempi brutali.
Li tedeschi la presero avvertenza;
chi si ha da vendicà non ha più pazienza
chi bomb’a mano chi co’ la rivoltella
tedeschi morti pe’ la via Rasella
(Egidio Cristini)
È logico che le ottave dei poeti orali popolari cantino di via Rasella, delle Fosse Ardeatine, della fuga di Kappler dal Celio. Per la dimensione della strage e per le controversie non sopite, le Fosse Ardeatine restano una ferita aperta nella memoria e nei sentimenti della città. Basta guardarsi intorno, grattare la superficie della memoria, e i racconti sgorgano. Roma ne è piena, ne siamo circondati. Solo a libro praticamente finito per esempio, mi sono reso conto che Pilo Albertelli era stato professore di mia madre, che Mario e Alfredo Capecci da ragazzi venivano a giocare sui prati dove adesso c’è casa mia, e che un ragazzo di Genzano che aveva fatto con me la tesi di laurea era il nipote di un altro degli uccisi. (…) Molte sono storie familiari di appropriazione per contatto dell’evento storico (“io c’ero”, anzi “mio padre c’era”) articolate con classiche narrazioni di pericolo scampato:
Giovanna Marroni (bibliotecaria): “La sorella di mia nonna col marito erano nel cinema Barberini proprio quando è successo l’attentato e all’uscita del cinema raccontavano appunto che avevano visto questa gran confusione e quasi per caso son riusciti a infilarsi in quel vicolo”.
Antonietta Saracino (ricercatrice): “Nella mia famiglia è sempre girata questa narrativa: papà mi diceva che quel giorno era passato da via Rasella un attimo prima o un attimo dopo, ha sentito queste urla, insomma non capiva di che cosa si trattasse, l’ha capito dopo. Un sacco di gente che conosce continuava a dirsi ‘sto film: “vedi, quello che camminava venti metri avanti a me è stato preso quando hanno chiuso la strada, io sono vivo per miracolo ”.
Altri racconti riguardano invece la memoria, i nomi, i luoghi, i rituali:
Neelam Srivastava (studentessa): “Anch”io ho un ricordo personale: una mia compagna di scuola, una mia amica, suo nonno morì alle Fosse Ardeatine, allora c’è una piazza vicino a casa mia dove c’è una lapide, dove c’è scritto che lui morì alla Fosse Ardeatine, e lei me lo ricordava. E questo fu il mio primo impatto con questo episodio, che non ne sapevo quasi niente, e quindi fu una cosa molto immediata. Di cognome faceva Zicconi. Però non so il suo nome».
Carla Gabrieli (ricercatrice): «[I miei genitori] erano dal Partito d’azione, e mi hanno sempre molto parlato di tutti questi eventi, e in particolare delle Fosse Ardeatine… Loro erano molto amici di due persone ammazzate alle Fosse Ardeatine, soprattutto di Pilo Albertelli, e di questo altro che si chiamava Pierantoni».
Vanda Perretta: «Poi c’è un secondo ricordo. Quando furono aperte le Fosse Ardeatine, la mamma acchiappò queste tre bambine, e ci portò, alle Fosse Ardeatine. Che non erano come oggi, e che erano qualche cosa che nel mio ricordo e rimasto come qualche cosa di morbido, perche era morbido il suolo per terra, perchè era rena, si cammilzava sul morbido, come se fosse una grande moquette; e morbido era l’odore, delle tuberose, che io non posso da allora mai più avere nelle vicinanze. Perchè dopo ho creduto di riconoscere nelle tuberose quell’odore di morte che c’era dentro le Fosse Ardeatine».
(…)
Trecentotrentacinque persone vogliono dire ormai tre generazioni di altrettante famiglie, parenti stretti, parenti lontani; per ognuno, vogliono dire amici, compagni di lavoro, di partito, di sindacato, di scuola, di chiesa, e vicini di casa, di quartiere: il racconto delle Fosse Ardeatine è un seguito di anelli concentrici che si espandono fino a pervadere lo spazio della città. “Davvero- come scriveva Henry James- le relazioni non si fermano mai”.
Solo fra i ragazzi di periferia le cui famiglie sono immigrate a Roma una generazione dopo, ho trovato aree in cui questa storia non era conosciuta, o era solo un’incerta memoria scolastica: Parlare delle Fosse Ardeatine e della loro memoria, insomma, significa parlare di Roma.
(…)
«Alle Fosse Ardeatine c’è mio padre ma c’è un bambino di 14 anni, ci sono dei sacerdoti, ci sono operai, ci sono impiegati, militari, carabinieri – forse lei diceva un momento fa una cosa giusta: che le Fosse Ardeatine sono il simbolo della tragedia italiana perché lì si è radunato tutto, tutti son stati rappresentati, non è stato altro che i simbolo di quello che succedeva intorno, nelle piazze di Roma›› (Vera Simoni). Alle Fosse Ardeatine muoiono cattolici, ebrei, atei; comunisti di diverse formazioni, socialisti, liberali, azionisti, monarchici, apolitici, militari, civili. Sono arristocratici, operai, artigiani, commercianti, professionisti. Vengono da un impegno attivo e rischio coscientemente assunto nella resistenza, o sono stati presi per caso e per fare numero, per essersi trovati nel luogo sbagliato o per non aver rinnegato la religione e l’identità ebraica.. Alle Fosse Ardeatine arrivano da tutti i quartieri e borgate di Roma, Trastevere e Montesacro, Torpignattara e Trionfale, Portico d’Ottavia e Centocelle, Testaccio e La Storta. Molti sono nati a Roma; ma a Roma la gente è venuta da tante parti, e alle Fosse Ardeatme finiscono vite cominciate in Abruzzo, in Puglia, a Torino, nei Castelli romani in Lussemburgo, in Ungheria, in Turchia, in Ucraina…
Roma è una città dove il peso della storia rischia di frustrare e isterilire la memoria, o comunque renderne irrilevante l’ascolto. A Roma, la Storia è troppo spesso una sfera estranea e lontana (Gli Indifferenti di Alberto Moravia) o un peso schiacciante che ti annulla (La Storia di Elsa Morante).
Per questo il rapporto fra Roma e le Fosse Ardeatine è così importante. In questa ricerca ho re-imparato a guardare le strade e le case della mia città. Accanto a San Pietro e al Colosseo ho visto altri luoghi della storia, altri monumenti della mia Roma: e non tanto il mausoleo delle Fosse Ardeatine, quanto certi immensi blocchi di case popolari grandi come città e bellissimi, come quelli di piazzale degli Eroi n. 8 dove Cencio Baldazzi allevò una generazione di azionisti; via Marmorata 169, con al centro del cortile il cippo messo dagli inquilini ai loro vicini morti alle Ardeatine e ad Auschwitz; “Stalingrado” a Val Melaina, roccaforte ancora oggi di coscienza di classe, anche lì con la lapide sul portone ai morti delle Ardeatine e a Forte Bravetta. E ho conosciuto, in persona o in memoria, i grandi uomini della storia popolare di Roma: Cencio Baldazzi, Vittorio Mallozzi, Enrico Ferola, Orfeo Mucci…
Le Fosse Ardeatine non sono certo l’unica né la peggiore delle stragi naziste. Ma sono l’unica strage «metropolitana» avvenuta in Europa: non solo l’unica perpetrata entro uno spazio urbano, ma l’unica che nell’eterogeneità delle vittime riassuma tutta la complessa stratificazione di storie di una grande città. Per questo e così grande la presa di questa vicenda sulla memoria e sull”identità. Certo, gli uccisi sono tutti uomini; ma questo, come vedremo, non fa che rendere centrale il ruolo delle donne nella sopravvivenza e nella memoria. Alle Fosse Ardeatine si compatta tutto lo spazio della città e un secolo della sua storia; sono il luogo simbolico dove tutte le storie convergono, e parlarne significa attraversare intera la vicenda di Roma del Novecento, «questa Città ribelle e mai domata», come dice la vecchia canzone comunista, cosi diversa dal luogo comune, che ha opposto ai nazisti una resistenza attiva e passiva intensa e dilfusa, e per questo è stata così duramente colpita.
Giovanna Marroni (bibliotecaria): “La sorella di mia nonna col marito erano nel cinema Barberini proprio quando è successo l’attentato e all’uscita del cinema raccontavano appunto che avevano visto questa gran confusione e quasi per caso son riusciti a infilarsi in quel vicolo”.
Antonietta Saracino (ricercatrice): “Nella mia famiglia è sempre girata questa narrativa: papà mi diceva che quel giorno era passato da via Rasella un attimo prima o un attimo dopo, ha sentito queste urla, insomma non capiva di che cosa si trattasse, l’ha capito dopo. Un sacco di gente che conosce continuava a dirsi ‘sto film: “vedi, quello che camminava venti metri avanti a me è stato preso quando hanno chiuso la strada, io sono vivo per miracolo ”.
Altri racconti riguardano invece la memoria, i nomi, i luoghi, i rituali:
Neelam Srivastava (studentessa): “Anch”io ho un ricordo personale: una mia compagna di scuola, una mia amica, suo nonno morì alle Fosse Ardeatine, allora c’è una piazza vicino a casa mia dove c’è una lapide, dove c’è scritto che lui morì alla Fosse Ardeatine, e lei me lo ricordava. E questo fu il mio primo impatto con questo episodio, che non ne sapevo quasi niente, e quindi fu una cosa molto immediata. Di cognome faceva Zicconi. Però non so il suo nome».
Carla Gabrieli (ricercatrice): «[I miei genitori] erano dal Partito d’azione, e mi hanno sempre molto parlato di tutti questi eventi, e in particolare delle Fosse Ardeatine… Loro erano molto amici di due persone ammazzate alle Fosse Ardeatine, soprattutto di Pilo Albertelli, e di questo altro che si chiamava Pierantoni».
Vanda Perretta: «Poi c’è un secondo ricordo. Quando furono aperte le Fosse Ardeatine, la mamma acchiappò queste tre bambine, e ci portò, alle Fosse Ardeatine. Che non erano come oggi, e che erano qualche cosa che nel mio ricordo e rimasto come qualche cosa di morbido, perche era morbido il suolo per terra, perchè era rena, si cammilzava sul morbido, come se fosse una grande moquette; e morbido era l’odore, delle tuberose, che io non posso da allora mai più avere nelle vicinanze. Perchè dopo ho creduto di riconoscere nelle tuberose quell’odore di morte che c’era dentro le Fosse Ardeatine».
(…)
Trecentotrentacinque persone vogliono dire ormai tre generazioni di altrettante famiglie, parenti stretti, parenti lontani; per ognuno, vogliono dire amici, compagni di lavoro, di partito, di sindacato, di scuola, di chiesa, e vicini di casa, di quartiere: il racconto delle Fosse Ardeatine è un seguito di anelli concentrici che si espandono fino a pervadere lo spazio della città. “Davvero- come scriveva Henry James- le relazioni non si fermano mai”.
Solo fra i ragazzi di periferia le cui famiglie sono immigrate a Roma una generazione dopo, ho trovato aree in cui questa storia non era conosciuta, o era solo un’incerta memoria scolastica: Parlare delle Fosse Ardeatine e della loro memoria, insomma, significa parlare di Roma.
(…)
«Alle Fosse Ardeatine c’è mio padre ma c’è un bambino di 14 anni, ci sono dei sacerdoti, ci sono operai, ci sono impiegati, militari, carabinieri – forse lei diceva un momento fa una cosa giusta: che le Fosse Ardeatine sono il simbolo della tragedia italiana perché lì si è radunato tutto, tutti son stati rappresentati, non è stato altro che i simbolo di quello che succedeva intorno, nelle piazze di Roma›› (Vera Simoni). Alle Fosse Ardeatine muoiono cattolici, ebrei, atei; comunisti di diverse formazioni, socialisti, liberali, azionisti, monarchici, apolitici, militari, civili. Sono arristocratici, operai, artigiani, commercianti, professionisti. Vengono da un impegno attivo e rischio coscientemente assunto nella resistenza, o sono stati presi per caso e per fare numero, per essersi trovati nel luogo sbagliato o per non aver rinnegato la religione e l’identità ebraica.. Alle Fosse Ardeatine arrivano da tutti i quartieri e borgate di Roma, Trastevere e Montesacro, Torpignattara e Trionfale, Portico d’Ottavia e Centocelle, Testaccio e La Storta. Molti sono nati a Roma; ma a Roma la gente è venuta da tante parti, e alle Fosse Ardeatme finiscono vite cominciate in Abruzzo, in Puglia, a Torino, nei Castelli romani in Lussemburgo, in Ungheria, in Turchia, in Ucraina…
Roma è una città dove il peso della storia rischia di frustrare e isterilire la memoria, o comunque renderne irrilevante l’ascolto. A Roma, la Storia è troppo spesso una sfera estranea e lontana (Gli Indifferenti di Alberto Moravia) o un peso schiacciante che ti annulla (La Storia di Elsa Morante).
Per questo il rapporto fra Roma e le Fosse Ardeatine è così importante. In questa ricerca ho re-imparato a guardare le strade e le case della mia città. Accanto a San Pietro e al Colosseo ho visto altri luoghi della storia, altri monumenti della mia Roma: e non tanto il mausoleo delle Fosse Ardeatine, quanto certi immensi blocchi di case popolari grandi come città e bellissimi, come quelli di piazzale degli Eroi n. 8 dove Cencio Baldazzi allevò una generazione di azionisti; via Marmorata 169, con al centro del cortile il cippo messo dagli inquilini ai loro vicini morti alle Ardeatine e ad Auschwitz; “Stalingrado” a Val Melaina, roccaforte ancora oggi di coscienza di classe, anche lì con la lapide sul portone ai morti delle Ardeatine e a Forte Bravetta. E ho conosciuto, in persona o in memoria, i grandi uomini della storia popolare di Roma: Cencio Baldazzi, Vittorio Mallozzi, Enrico Ferola, Orfeo Mucci…
Le Fosse Ardeatine non sono certo l’unica né la peggiore delle stragi naziste. Ma sono l’unica strage «metropolitana» avvenuta in Europa: non solo l’unica perpetrata entro uno spazio urbano, ma l’unica che nell’eterogeneità delle vittime riassuma tutta la complessa stratificazione di storie di una grande città. Per questo e così grande la presa di questa vicenda sulla memoria e sull”identità. Certo, gli uccisi sono tutti uomini; ma questo, come vedremo, non fa che rendere centrale il ruolo delle donne nella sopravvivenza e nella memoria. Alle Fosse Ardeatine si compatta tutto lo spazio della città e un secolo della sua storia; sono il luogo simbolico dove tutte le storie convergono, e parlarne significa attraversare intera la vicenda di Roma del Novecento, «questa Città ribelle e mai domata», come dice la vecchia canzone comunista, cosi diversa dal luogo comune, che ha opposto ai nazisti una resistenza attiva e passiva intensa e dilfusa, e per questo è stata così duramente colpita.
Dove cominciano e dove finiscono le storie.
Se uno cerca «Fosse Ardeatine» su Internet, si imbatte in un sito di informazioni storico-turistiche per stranieri, che contiene una pagina dedicata a questo luogo. Comincia così: «23 March 1944 a bomb explodes in Via Rasella killing 32 German troops. In retaliation the Germans decided to kill 10 Italians for each man who was killed».
«Il racconto — scrive l’antropologo americano Bruce Jaclcson — genera i suoi confini di realtà accettabile»: niente succede prima dell’inizio, niente succede dopo la fine. Un incipit turba l’ordine, un finale lo ristabilisce. Anche nella maggior parte della storiografia e nei libri di scuola, oltre che nelle polemiche politiche e giornalistiche, via Rasella e le Fosse Ardeatine sono trattate come un evento unico e autoconcluso; questo libro si propone di contestare questo approccio. In primo luogo, come cercherò di dimostrare, l’azione partigiana di via Rasella e la strage nazista delle Fosse Ardeatine non sono un evento solo, ma due eventi distinti, connessi fra loro da una relazione evidente ma tutt’altro che automatica, anzi altamente problematica. In secondo luogo, cercherò di mostrare come la sequenza di cui fanno parte non cominci necessariamente con quell’esplosione in via Rasella, e non finisca con l’esplosione delle mine che fanno crollare le cave sui cadaveri degli uccisi.
Non comincia lì non solo perché, come ho detto sopra, non cominciano lì le storie delle persone che vi finiscono; ma anche, più immediatamente, perché via Rasella fu la più clamorosa ma non – come è diffusa credenza – l’unica azione partigiana, e nemmeno la prima, in cui tedeschi vennero uccisi nel centro di Roma: ce ne furono molte altre, e nessuna fu seguita da un’analoga rappresaglia. E non finisce lì, perché le Fosse Ardeatine non furono l’unica, e nemmeno l’ultima strage perpetrata dai nazisti nella città di Roma, ma furono precedute e seguite dai settantadue fucilati a Forte Bravetta, dai dieci fucilati a Pietralata il 23 ottobre, dalle dieci donne uccise a Ostiense per aver assalito un forno, dai quattordici massacrati alla Storta sulla via della fuga il 4 giugno, senza che fosse avvenuto a «giustificarli» nessun attentato partigiano. Per non parlare delle deportazioni di massa, con le migliaia di morti che ne seguirono: duemila ebrei tra la razzia del 16 ottobre e i capillari arresti dei mesi seguenti; centinaia di carabinieri deportati; migliaia di rastrellati per le strade; settecento razziati e deportati dal Quadraro un mese prima della liberazione. E intorno c’era la guerra, i bombardamenti, la fame, i renitenti alla leva fascista nascosti, gli sfollati accampati, il coprifuoco.
Ma la storia non si chiude lì, con l’ordine ricomposto dopo il massacro, soprattutto perché le Fosse Ardeatine non sono solo il luogo in cui molte storie finiscono, ma anche quello da cui un’infinità di altre storie si diramano, Da lì riparte una battaglia per il significato e la memoria, che si svolge sulle pagine dei giornali, nelle aule dei tribunali, nelle lapidi sui muri e nelle cerimonie: per questa «brutta storiaccia» si celebrano processi a mezzo secolo di distanza e letteralmente ci si picchia ancora. Ma più dolorosa, più costante e quasi sempre più silenziosa è la fatica e la tensione che attraversa la vita e i sentimenti di quelli che sono rimasti, genitori, coniugi, figli, nipoti, fratelli e sorelle degli uccisi. Fare la storia del lutto pubblico significa ripercorrere le mutazioni del clima politico attraverso mezzo secolo; fare la storia dei lutti personali significa interrogarsi su come è stato possibile andare avanti dopo. La storia delle Fosse Ardeatine è davvero, come nel titolo del libro di Robert Katz, la storia della «morte a Roma», ma in un altro senso: è la storia di come la città – le istituzioni e le singole persone – hanno provato a elaborare, talvolta in accordo, spesso in conflitto o ignorandosi a vicenda, il senso di questa morte di massa che eppure è morte di singoli, assurda, violenta, crudele.
Ada Pignitti aveva ventitré anni, ha perso alle Fosse Ardeatine il marito che aveva sposato da pochi mesi, e altre tre persone di famiglia. Che si sappia, nessuno era partigiano; ma si trovavano tutti vicino a via Rasella quel giorno. Racconta: «All’epoca, dopo successo il fatto, nel ’44 – non se ne parlava proprio, non si poteva parlare. Io ho lavorato per quarant’anni, quindi, anche nell’ufficio mio, alle volte, quando me domandavano qualcosa, non glie dicevo niente – perché te lo dicevano con coso [con sfida]: dice, embè, e la colpa è de quello ch’ha messo ‘a bomba. Facevo finta de non sentilli perché tanto me rispondevano sempre così: eh, però la colpa mica so’ dei tedeschi, la colpa è quello che ha messo la bomba. Dice perché se si presentava, quelli no’ l’ammazzavano. Ma ‘ndo’ sta scritta ‘sta storia? Quando l’hanno detto? Quando? Che non hanno detto proprio niente, non è vero che hanno messo i manifesti – l’hanno messi dopo, dopo che già avevano ammazzato i trecentotrentacinque. Perché noi abbiamo seguito giorno dopo giorno tutte le tragedie; e gliel’ho detto, quando abbiamo letto quello sul giornale lo me so’ sentita male, mia cognata appress’a me. Non ce potevi nemmeno ragiona’ perché dice che fai, stai a difende’ quelli che hanno mess’a bomba? Io non difendo nessuno, perché le cose so’ così, è inutile che le vogliamo sconvolge’».
L’alibi della colpa dei partigiani esorcizza la presenza di queste persone che col solo esserci incrinano la tranquillità delle coscienze. Per ognuno di loro è stato difficile e penoso fare i conti sulle ragioni e sulle cause, e le conclusioni cambiano da persona a persona. Lo stesso vale per i partigiani che presero parte all’attacco di via Rasella e ad altre azioni armate. «Il fatto di dare la morte, di distruggere, è una cosa che ti distrugge a te stesso, ogni volta un pezzetto ti leva», dice Carla Capponi. Anche per loro, venire a termini con questa vicenda è stato un lavoro lungo e complesso, dagli esiti molteplici: dall’impegno per la memoria di alcuni al silenzio di altri, dalla milizia politica degli uni al lavoro professionale e intellettuale di altri.
«Il racconto — scrive l’antropologo americano Bruce Jaclcson — genera i suoi confini di realtà accettabile»: niente succede prima dell’inizio, niente succede dopo la fine. Un incipit turba l’ordine, un finale lo ristabilisce. Anche nella maggior parte della storiografia e nei libri di scuola, oltre che nelle polemiche politiche e giornalistiche, via Rasella e le Fosse Ardeatine sono trattate come un evento unico e autoconcluso; questo libro si propone di contestare questo approccio. In primo luogo, come cercherò di dimostrare, l’azione partigiana di via Rasella e la strage nazista delle Fosse Ardeatine non sono un evento solo, ma due eventi distinti, connessi fra loro da una relazione evidente ma tutt’altro che automatica, anzi altamente problematica. In secondo luogo, cercherò di mostrare come la sequenza di cui fanno parte non cominci necessariamente con quell’esplosione in via Rasella, e non finisca con l’esplosione delle mine che fanno crollare le cave sui cadaveri degli uccisi.
Non comincia lì non solo perché, come ho detto sopra, non cominciano lì le storie delle persone che vi finiscono; ma anche, più immediatamente, perché via Rasella fu la più clamorosa ma non – come è diffusa credenza – l’unica azione partigiana, e nemmeno la prima, in cui tedeschi vennero uccisi nel centro di Roma: ce ne furono molte altre, e nessuna fu seguita da un’analoga rappresaglia. E non finisce lì, perché le Fosse Ardeatine non furono l’unica, e nemmeno l’ultima strage perpetrata dai nazisti nella città di Roma, ma furono precedute e seguite dai settantadue fucilati a Forte Bravetta, dai dieci fucilati a Pietralata il 23 ottobre, dalle dieci donne uccise a Ostiense per aver assalito un forno, dai quattordici massacrati alla Storta sulla via della fuga il 4 giugno, senza che fosse avvenuto a «giustificarli» nessun attentato partigiano. Per non parlare delle deportazioni di massa, con le migliaia di morti che ne seguirono: duemila ebrei tra la razzia del 16 ottobre e i capillari arresti dei mesi seguenti; centinaia di carabinieri deportati; migliaia di rastrellati per le strade; settecento razziati e deportati dal Quadraro un mese prima della liberazione. E intorno c’era la guerra, i bombardamenti, la fame, i renitenti alla leva fascista nascosti, gli sfollati accampati, il coprifuoco.
Ma la storia non si chiude lì, con l’ordine ricomposto dopo il massacro, soprattutto perché le Fosse Ardeatine non sono solo il luogo in cui molte storie finiscono, ma anche quello da cui un’infinità di altre storie si diramano, Da lì riparte una battaglia per il significato e la memoria, che si svolge sulle pagine dei giornali, nelle aule dei tribunali, nelle lapidi sui muri e nelle cerimonie: per questa «brutta storiaccia» si celebrano processi a mezzo secolo di distanza e letteralmente ci si picchia ancora. Ma più dolorosa, più costante e quasi sempre più silenziosa è la fatica e la tensione che attraversa la vita e i sentimenti di quelli che sono rimasti, genitori, coniugi, figli, nipoti, fratelli e sorelle degli uccisi. Fare la storia del lutto pubblico significa ripercorrere le mutazioni del clima politico attraverso mezzo secolo; fare la storia dei lutti personali significa interrogarsi su come è stato possibile andare avanti dopo. La storia delle Fosse Ardeatine è davvero, come nel titolo del libro di Robert Katz, la storia della «morte a Roma», ma in un altro senso: è la storia di come la città – le istituzioni e le singole persone – hanno provato a elaborare, talvolta in accordo, spesso in conflitto o ignorandosi a vicenda, il senso di questa morte di massa che eppure è morte di singoli, assurda, violenta, crudele.
Ada Pignitti aveva ventitré anni, ha perso alle Fosse Ardeatine il marito che aveva sposato da pochi mesi, e altre tre persone di famiglia. Che si sappia, nessuno era partigiano; ma si trovavano tutti vicino a via Rasella quel giorno. Racconta: «All’epoca, dopo successo il fatto, nel ’44 – non se ne parlava proprio, non si poteva parlare. Io ho lavorato per quarant’anni, quindi, anche nell’ufficio mio, alle volte, quando me domandavano qualcosa, non glie dicevo niente – perché te lo dicevano con coso [con sfida]: dice, embè, e la colpa è de quello ch’ha messo ‘a bomba. Facevo finta de non sentilli perché tanto me rispondevano sempre così: eh, però la colpa mica so’ dei tedeschi, la colpa è quello che ha messo la bomba. Dice perché se si presentava, quelli no’ l’ammazzavano. Ma ‘ndo’ sta scritta ‘sta storia? Quando l’hanno detto? Quando? Che non hanno detto proprio niente, non è vero che hanno messo i manifesti – l’hanno messi dopo, dopo che già avevano ammazzato i trecentotrentacinque. Perché noi abbiamo seguito giorno dopo giorno tutte le tragedie; e gliel’ho detto, quando abbiamo letto quello sul giornale lo me so’ sentita male, mia cognata appress’a me. Non ce potevi nemmeno ragiona’ perché dice che fai, stai a difende’ quelli che hanno mess’a bomba? Io non difendo nessuno, perché le cose so’ così, è inutile che le vogliamo sconvolge’».
L’alibi della colpa dei partigiani esorcizza la presenza di queste persone che col solo esserci incrinano la tranquillità delle coscienze. Per ognuno di loro è stato difficile e penoso fare i conti sulle ragioni e sulle cause, e le conclusioni cambiano da persona a persona. Lo stesso vale per i partigiani che presero parte all’attacco di via Rasella e ad altre azioni armate. «Il fatto di dare la morte, di distruggere, è una cosa che ti distrugge a te stesso, ogni volta un pezzetto ti leva», dice Carla Capponi. Anche per loro, venire a termini con questa vicenda è stato un lavoro lungo e complesso, dagli esiti molteplici: dall’impegno per la memoria di alcuni al silenzio di altri, dalla milizia politica degli uni al lavoro professionale e intellettuale di altri.
fonte: www.minimaetmoralia.it
... per i pigri che non hanno voglia di informarzi leggendo... Ascanio Celestini ci ha fatto un pezzo teatrale... credo si trovi su you tube... (magari c'è anch escritto nel post ma è lungo e sono al lavoro lo leggerò stasera)
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