CRISTO MORTO - ANDREA MANTEGNA

giovedì 27 dicembre 2018

la strage della famiglia Einstein


Albert Einstein fu un fisico e un filosofo tedesco di origine ebraica. Il suo genio, oggi indiscusso e riconosciuto a livello mondiale, non lo mise al riparo dalla persecuzione a cui furono sottoposti tutti gli ebrei in seguito all’ascesa nazista al comando della Germania. Fra il 1933 e il 1939 gli ebrei furono oggetto di oltre 400 fra decreti e regolamenti, che avevano lo scopo di limitare la loro vita, sia in ambito privato che pubblico. Il primo fra i provvedimenti in ordine temporale fu quello del 07 aprile 1933, denominato “Legge per la Restaurazione del Servizio Civile Professionale”, che stabiliva che tutti i funzionari e impiegati pubblici di origine ebraica, oltre che tutti coloro che erano considerati “politicamente inaffidabili”, cioè oppositori del regime, dovevano essere esclusi con effetto immediato da qualsiasi incarico pubblico. 


Albert Einstein fu uno di questi. All’epoca si trovava all’università di Princeton, come ospite. In un attimo si rese conto che la sua vita non sarebbe stata più la stessa. Le sue posizioni politiche durante il primo conflitto mondiale e il suo pensiero spiccatamente ed apertamente contro le idee di Hitler, lo spinsero a lasciare l’Europa per trasferirsi negli Stati Uniti. La sua decisione non fu gradita al Führer. Iniziò una vera e propria campagna denigratoria ai danni del fisico, tanto che i premi Nobel Philipp von Lenard e Johannes Stark cercarono di screditare il suo lavoro, distinguendo fra “fisica tedesca o ariana” e “fisica ebraica”. Quell’uomo geniale e versatile divenne il simbolo dell’opposizione al regime in America, doveva essere annientato. Inoltre, con le sue scoperte, poteva contribuire allo sviluppo tecnologico dei paesi contrapposti al terzo Reich. 


Prima o poi il Führer si sarebbe vendicato, l’occasione sarebbe arrivata e quell’uomo che lo aveva sfidato tanto apertamente, che la campagna diffamatoria nazista non aveva piegato, avrebbe pagato il suo gesto.
Non tutti i componenti della famiglia Einstein lasciarono l’Europa. C’era chi riteneva che sarebbe stato sufficiente comportarsi bene e con obbedienza per riuscire ad uscire indenni da quegli anni di terribile repressione. In Toscana, in una magnifica tenuta nella campagna fiorentina fino al 1944 visse la famiglia di Robert Einstein. 
Robert era cugino in primo grado di Albert, figlio di Jakob Einstein, fratello del padre del noto fisico. I suoi primi anni di vita li trascorse a Pavia, in via Severino Boezio. Frequentò fra il 1895 e il 1896 il ginnasio “Ugo Foscolo”. Si trasferì con la famiglia in Germania quando la ditta del padre e dello zio fallì. Concluse gli studi lì, laureandosi in ingegneria. Nel frattempo conobbe una giovane di origine italiana, Cesarina Mazzetti, per tutti Nina, che sposò appena finiti gli studi. 


La coppia decise di ritrasferirsi in Italia, acquistando la villa “il Foccardo” a Rignano d’Arno, in provincia di Firenze. Dall’unione felice fra Nina e Robert nacquero due bambine: Annamaria e Luce. La loro vita trascorse tranquillamente, fino a quando un evento luttuoso colpì la famiglia Mazzetti: il fratello di Nina, Corrado rimase vedovo. La moglie, Olga Liberati, morì poco dopo aver dato alla luce le loro due gemelle, Lorenza e Paola. L’uomo distrutto dal dolore e incapace di crescere le due piccole, le aveva date in affido a persone di fiducia, che però si rivelarono assolutamente incapaci di svolgere il delicato compito. Dopo varie vicissitudini, in seguito alle insistenze di una zia dei Mazzetti, la famiglia Einstein decise di prender in affido le bambine, che furono accolte alla villa come figlie, diventando parte integrante della famiglia. In quell’angolo di Toscana le leggi razziali, i pogrom, le persecuzioni, la violenza, sembravano cose lontane. L’inizio della guerra segnò la fine di quella vita di spensieratezza. Durante il conflitto la zona fu interessata da una intensa attività bellica. Fra il 1943 e il 1944 i soldati tedeschi compirono numerosi rastrellamenti nelle campagne limitrofe a Rignano. Un brutto giorno arrivarono anche a casa Einstein. Decisero di scegliere la villa come dimora per alcuni ufficiali della Wehrmacht. Il resto dei soldati si stabilì nella tenuta. 
Il conflitto in Italia, dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia nel luglio del 1943, era in continua evoluzione. Il fronte di combattimento si avvicinava sempre di più. Robert prese la decisione di lasciar la villa e di rifugiarsi nei boschi vicini alla tenuta, con alcuni amici partigiani della zona. Nina per la prima volta non condivise quella decisione. Preferì restare a casa, non sentendosi minacciata dalla deportazione. L’inesorabile avanzata degli alleati costrinse le truppe tedesche a lasciare la zona. Il 03 agosto 1944 un gruppo di soldati delle SS irruppe nella villa, in cerca di Robert. Urla, spintoni, mitra alla mano. Paola e Lorenza furono chiuse in una stanza, mentre in un’altra Nina, Luce e Annamaria venivano interrogate. 
Pochi istanti di silenzio e poi una mitragliata. A terra rimasero madre e figlie, brutalmente uccise da un commando di soldati mai identificati, che prima di lasciare la villa, appiccarono un incendio, probabilmente per cancellare ogni traccia del crimine commesso. Dal bosco Robert, ignaro dell’accaduto, vide le fiamme e accorse sul luogo con altre persone. Trovò la sua famiglia barbaramente trucidata. Le gemelle furono tratte in salvo, insieme ad un’altra cugina venuta in visita. Furono risparmiate perché non appartenevano direttamente alla famiglia Einstein. Il giorno seguente in giardino fu ritrovato un biglietto che riportava le seguenti parole: «abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein, rei di tradimento e giudei.» 


Le truppe alleate giunsero sul posto pochi giorni dopo la strage. Furono indirizzati sul luogo dallo stesso Albert Einstein, che cercava notizie di quella parte della sua famiglia rimasta in Italia. Il 17 settembre, il maggiore della Quinta Armata, Milton Wexler, informò lo scienziato di quanto era avvenuto. Robert, annientato dal dolore, cercò di suicidarsi, ma senza successo, mentre una commissione per i crimini di guerra aveva avviato delle indagini sull’accaduto, per identificare i responsabili. 
Il 13 luglio 1945 Robert Einstein si tolse la vita, nel giorno del 32° anniversario di nozze con la sua amata Nina. Le sue spoglie e quelle della famiglia riposano nel cimitero di Badiuzza, vicino a villa Focardo. La strage di Rignano d’Arno rimase impunita. Negli anni ’90, in seguito all’apertura dell’Armadio della Vergogna, grazie a pressioni politiche, le indagini ripartirono presso la Procura Militare di La Spezia. I responsabili materiali dell’omicidio sono stati individuati nel 104° reggimento Panzergrenadier della Wehrmacht. La Germania ha avviato le pratiche per indagare sulle responsabilità ed individuare finalmente gli esecutori materiali. Chi diede l’ordine di procedere? Credo sia superfluo stabilirlo ora, ognuno si farà la propria idea. Quel giorno si compì la vendetta del Führer, che aveva così colpito al cuore lo scienziato ribelle, mantenendo la sua promessa.

Rosella Reali

https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia

Antifascismo, resistenza, liberazione, ricostruzione. Appunti di storia Rignanese, Rignano sull'Arno, a cura del Comune di Rignano, 2004

Lorenza Mazzetti, Il cielo cade, Firenze, Editore Sellerio di Giorgianni, 1961 

Arcuri Camillo, Il sangue degli Einstein italiani, Mursia 

provinciapavese.gelocal.it/tempo-libero/2016/01/25/news/la-strage-della-famiglia-einstein

ROSELLA REALI

Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

giovedì 20 dicembre 2018

Hitler, Kennedy, 11 Settembre: è nera la storia dei Bush

Se c’è un motivo per cui si insiste sull’importanza dell’omicidio Kennedy, dopo oltre 50 anni dall’evento, non è certo per “cospirazionismo congenito”, ma per un fatto molto più semplice e tangibile: la stessa persona che era a Dallas il 22 novembre 1963 dormì alla Casa Bianca il 10 settembre 2001. E ciò per sua stessa ammissione, in ambedue i casi. Anzi, nel primo George Herbert Bush, padre-padrone del Nuovo Ordine Mondiale – oltre che del futuro presidente, George Walker Bush – si premurò di informare direttamente l’Fbi della sua presenza a Dallas quel giorno, proprio nelle ore in cui il corteo di Kennedy si presentava all’appuntamento con la storia in Dealey Plaza. Nelle stesse ore Richard Nixon, presente a Dallas da tre giorni per «motivi personali» – peraltro mai accertati – ripartiva alla volta di New York, dove avrebbe appreso dell’avvenuto omicidio di John Kennedy. Sarebbe diventato l’unico uomo al mondo a non ricordarsi del momento esatto in cui apprese la notizia, fornendone negli anni ben tre versioni differenti: all’aeroporto, durante il tragitto in taxi, sotto il portone di casa. «Diventano così tre, contando anche Johnson che lo sarebbe diventato quel pomeriggio, i futuri presidenti che erano a Dallas quel giorno. Un curioso crocevia della storia, se non altro».
Lo afferma Massimo Mazzucco, riproponendo su “Luogo Comune” una scheda sulla dinastia dei Bush all’indomani della scomparsa di “Bush padre”, George H., spentosi a Houston il 30 novembre all’età di 94 anni. Dei Bush “segreti” parla George Herbert Bushdiffusamente Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), svelando che – dopo la sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane nel 1980 – Bush senior fondò la Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, detta anche “loggia del sangue e della vendetta”. Alla “Hathor”, nella sua ricostruzione fondata su un archivio massonico di 6.000 pagine, Magaldi attribuisce l’attentato a Reagan (cui seguì in modo simmetrico l’attentato a Papa Wojtyla), quindi l’incubazione della strage dell’11 Settembre e infine – ancora nel campo del terrorismo “false flag” – la fabbricazione dell’Isis, ultima incarnazione del “demonio” islamista partorito dallo schema (interamente occidentale) del cosiddetto “scontro di civiltà”, grazie al quale il gruppo di potere capeggiato dalla super loggia dei Bush decise di completare “a mano armata” la globalizzazione violenta del pianeta, attraverso guerre in Medio Oriente innescate da “fake news” come le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
Dal canto suo, Mazzucco si concentra invece su “nonno Bush”, ovvero Prescott, il padre di George H. Lo definisce «la persona più importante di tutte, in questa vicenda», dati i clamorosi legami della famiglia col nazismo. Retroscena imbarazzanti, in grado di illuminare le origini del gruppo di potere che – con l’11 Settembre – ha cambiato la storia del pianeta. Tanto per cominciare, Prescott Bush era a Dallas il giorno dell’attentato a Kennedy. E oltre che ad aver avuto un ruolo determinante, dietro le quinte, in tutta la politica americana del dopoguerra, lo stesso Prescott è risultato esser stato implicato nei pesanti finanziamenti illeciti che contribuirono all’ascesa di Hitler al potere. La vicenda, aggiunge Mazzucco, merita di essere conosciuta per meglio inquadrare la potenza di una dinastia così determinante, nella storia degli Usa e del resto del mondo. Fin dall’inizio, la saga dei Bush è fondata sul fatale intreccio di politica e affari. Il nonno materno di Prescott, George Herbert Walker, aveva fondato a St.Louis, nel 1900, la società finanziaria G. H. Walker and Company. Tale fu il suo successo, che nel 1920 la società si trasferiva con tutti gli onori nella prestigiosa Wall Street di New York. Di lì a poco, il contatto con la Germania: nel 1924 George Walker conobbe l’industriale tedesco Fritz Tyssen, uno dei maggiori finanziatori del nascente Prescott Bush con il figliopartito nazista. «In poco tempo Walker divenne a sua volta il tramite di finanziamenti sempre più voluminosi che dall’America finivano direttamente nelle casse di Hitler».
Un’altra compagnia che investiva denaro americano in Germania era la Sullivan & Cromwell di un certo Allen Dulles, che ritroveremo trent’anni dopo alla guida della Cia. Una terza società, la più importante di tutte, era la Harriman & Associates, di un certo Averill Harriman: «Un personaggio con forti legami col paritito nazista tedesco, che in seguito sarebbe divenuto ambasciatore Usa a Mosca, e poi ministro del commenrcio, sotto Truman». Nel 1931, prosegue Mazzucco, Harriman scelse George Walker alla guida della Union Banking Corporation, la banca che gli serviva da tramite per i suoi traffici monetari con la Germania. A sua volta, nel 1934, George Walker fece assumere il nipote Prescott come vicepresidente della Harriman & Associates, accanto al suo boss. Nel 1936 Harriman fondò la Brown Brothers Harriman, ne assunse alla guida legale Allen Dulles, del quale assorbiva nel frattempo la Sullivan & Cromwell. Nel 1937 Harriman entrò in società con i Rockefeller, dando origine alla Brown Brothers Harriman-Schroeder Rock. Già a quel tempo, Rockefeller significava Standard Oil.
Come delfino di Harriman, Prescott Bush si era intanto venuto a trovare, prima della guerra, anche nel consiglio di amministazione della Union Banking. Ma nel 1942 – a guerra scoppiata – la banca si vide congelare dall’Fbi di Edgar J. Hoover tutti i beni, in seguito ad una legge che imponeva di interrompere ogni possibile relazione finanziaria con in paesi nemici. «Ma Prescott, con l’aiuto di Dulles, seppe congegnare un meccanismo finanziario che permise alla maggior parte dei capitali di sfuggire al congelamento, dirottandoli semplicemente in operazioni molto meno vistose, ma altrettanto lucrative. Per Prescott fu il trionfo, e per Dulles la garanzia di un futuro senza più limiti alle sue ambizioni». Naturalmente, aggiunge Mazzucco, «Hoover non era stato troppo rigoroso nell’indagare sulla Union Bank di Harriman, e molto probabilmente nacque proprio in quei giorni una reciproca simpatia fra i tre “ragazzi”, che avrebbe poi condizionato la storia per molti decenni a venire». Se Allen Dulles e Edgar Hoover si legano ai Bush già durante il secondo conflitto mondiale, l’uomo-chiave dell’ancoraggio della famiglia Bush nella politica americana del dopoguerra sarà Richard Nixon, «divenuto il pupillo di Prescott Bush con NixonPrescott – altri direbbero il suo pupazzo». Bush ne aveva finanziato l’elezione al Parlamento, dopo averlo prelevato dai ranghi dell’Fbi.
Risale a quegli anni, sostiene Mazzucco, un possibile collegamento fra Nixon e Jack Ruby, l’assassino di Oswald a Dallas. Sempre “nonno Bush” aveva poi piazzato Nixon accanto ad Eisenhower, alla vicepresidenza, facendogli sposare la nipotina dell’ex-generale. «Nixon era quindi diventato il candidato naturale alla presidenza, nel 1960, allo scadere del mandato di Eisenhower, ma aveva perso a sorpresa contro lo sconosciuto Kennedy». Con l’assassinio di Dealey Plaza, tre anni dopo, si riapriva per Nixon (e quindi per Prescott Bush) la strada della Casa Bianca. Il giorno seguente, infatti – come poi raccontò uno dei suoi più stretti collaboratori – si svolse a casa di Nixon una riunione segreta, nella quale vennero discusse le strategie per rientrare sulla scena politica, dopo la bruciante sconfitta del 1960. «Cuba era diventata nel frattempo una dolorosa spina nel fianco, dopo il fallimento dell’invasione della “Baia dei Porci”, che i repubblicani imputavano interamente a Kennedy. Ma il progetto originale, del ‘59, era dello stesso Nixon, il quale evidentemente “se lo era preparato” per ritrovarselo fresco sul tavolo, una volta divenuto presidente».
Lo aveva elaborato subito dopo la rivoluzione castrista, collaborando con un certo Howard Hunt della Cia, uomo di Allen Dulles (il direttore Cia in quel periodo) sin dagli anni ‘30. La differenza era che il piano Hunt-Nixon-Dulles prevedeva che al momento giusto l’America avrebbe concesso il supporto militare richiesto dagli “invasori” di Cuba, mentre Kennedy “al momento giusto” si rifiutò di concederlo. Questo causò una crisi insanabile all’interno dell’amministrazione, con la frattura definitiva fra la Cia e Kennedy, che si permise addirittura di licenziare Dulles. «Meno di due anni dopo, Allen Dulles sedeva accanto al giudice Warren, nella famigerata commissione che prendeva il suo nome, e che riusciva in qualche modo ad insabbiare le indagini sull’omicidio più famoso della storia». Curiosamente, annota Mazzucco, anche Howard Hunt si trovava a Dallas il giorno dell’attentato: «Nonostante in seguito abbia tentato di negarlo, fu inchiodato in proposito dalla testimonianza dei suoi stessi figli». E così, «il crocevia texano si fa sempre più fitto». Nel ‘64 però Nixon scelse, saggiamente, Jack Rubydi non candidarsi, poichè la popolarità di Johnson – succeduto a Kennedy dopo Dallas – in quel momento era alle stelle. Johnson infatti stracciò letteralmente il candidato repubblicano Barry Goldwater.
Nixon sarebbe rientrato alla Casa Bianca solo nel ‘68, dopo la morte del nuovo candidato democratico, Robert Kennedy, anch’egli assassinato in circostanze mai chiarite, «ma di certo non da Shiran Shiran solamente». Una volta che Nixon fu presidente, Howard Hunt fece uno strepitoso balzo di carriera, passando da semplice agente Cia a capo dei servizi segreti della Casa Bianca. Contemporaneamente George H. Bush (“Bush padre”, il figlio di Prescott) veniva nominato da Nixon ambasciatore alle Nazioni Unite. «Ormai le redini del comando, in famiglia, erano passate a George H. Bush». Prescott però moriva, nel 1972, e non potè vedere il figlio diventare direttore della Cia nel 1976, poi vicepresidente sotto Reagan (1980-1988), ed infine presidente egli stesso, dal 1988 al 1992. Non vide nemmeno, peraltro, la sconfitta del figlio nel 1992, che perdeva inaspettatamente la sua rielezione contro uno sconosciuto Bill Clinton. La storia sembrava ripetersi, e fu questa volta George H. Bush a dover attendere la controversa decisione della Corte Suprema, nel 2000, per poter piazzare il figlio – George W. – fra le mura tanto amate. «Talmente amate, parrebbe, che il 10 di settembre del 2001, nonostante il figlio si trovasse in Florida, decise di fermarsi a dormire alla Casa Bianca, sulla via del ritorno da New York al Texas».
Lo ha raccontato egli stesso in televisione, più di una volta. Sarebbe ripartito molto presto all’alba, venendo così a trovarsi già vicino a casa, al momento del blocco completo dei voli che seguì gli attentati dell’11 Settembre. «La sera del 10, a fare gli onori di casa c’era Dick Cheney, l’uomo che lo stesso Bush aveva messo accanto al figlio, come vicepresidente, un anno prima. Cheney era anche l’uomo che, in assenza del presidente in carica, avrebbe saldamente preso in mano la situazione durante gli attacchi terroristici, arrivando anche a far deviare, tramite i servizi segreti, i due caccia che si stavano finalmente dirigendo verso l’aereo diretto sul Pentagono, e mandandoli invece su un bersaglio fasullo». Aggiunge Mazzucco: «Che cosa abbia fattoKennedy a DallasGeorge H. Bush a Dallas nel lontano 1963, e che cosa abbia fatto – o di cosa abbia parlato con Cheney – la notte del 10 settembre 2001, alla Casa Bianca, non lo sapremo probabilmente mai».
Stranissima, poi, la telefonata che George H. Bush fece, il 22 novembre 1963, a un agente Fbi, Graham Kitchel. Nel suo report, Kitchel riporta due notizie. La prima: Bush senior gli ha segnalato il nome di un giovane, James Parrott, «forse studente dell’università di Houston». Naturalmente «in via confidenziale», Bush parla di «una voce» che «ha sentito girare» nelle settimane precedenti, secondo cui l’ipotetico Parrott «andava parlando di uccidere il Presidente», quando fosse arrivato a Houston. Sempre all’agente Fbi, Bush fornì indicazioni su come approfondire: due donne della direzione del partito repubbicano della contea di Harris avrebbero potuto fornire maggiori informazioni sull’identità di Parrott. Infine, lo stesso Kitchel scrive: «Bush ha dichiarato di essere in partenza per Dallas, Texas, dove avrebbe alloggiato allo Sheraton-Dallas, per tornare a casa sua il 23 novembre 1963», cioè il giorno seguente. Curioso, segnala Mazzucco: «Mentre Kennedy sta morendo all’ospedale di Dallas, Bush – allora privato cittadino, e presidente di una delle tante compagnie petrolifere di proprietà di famiglia – parte per la stessa città, e si premura di farlo sapere all’Fbi». Sembra proprio di leggere fra le righe «una strana voglia da parte sua di “farsi trovare” a tutti costi dalla stessa Fbi, a Dallas, quella sera».
Ancora più curioso, dice Mazzucco, è che Bush utilizzi, come scusa per rendere nota la sua presenza in città, proprio la “voce di possibile attentato al presidente Kennedy, quando verrà a Huston”, visto che a Houston Kennedy c’era già stato. «Di certo si può supporre una cosa: se Bush quella sera è stato contattato dall’Fbi – come appare probabile – avrà sicuramente avuto da loro più informazioni sull’attentato appena avvenuto, di quante ne possa mai aver date sul suo fantomatico “James Parrott”». Curioso infine che l’ora in cui fu ricevuta la telefonata (13.45) corrisponda al momento in cui la notizia della morte di Kennedy, avvenuta intorno alle 13, iniziava a rimbalzare in tutte le agenzie del mondo. «Giusto per assicurarsi un “alibi” fuori città, nel caso estremo, ma anche giusto in tempo per saltare in macchina e raggiungere lo Sheraton di Dallas, dove potersi “rendere Bush padre e figlioreperibile in serata”». Tutte coincidenze? «Può darsi. Ma che dire allora di questo documento, dal quale risulta che Jack Ruby – l’uomo su cui fece perno l’intera organizzazione dell’omicidio di Dallas, e che pensò poi a liberarsi fisicamente di Oswald, prima che potesse parlare – lavorava per Nixon già dal lontano 1947?».
Si tratta di un documento dell’Fbi, desecretato qualche anno fa. «Giuro con questa dichiarazione che un certo Jacob Rubinstein di Chicago, potenziale testimone davanti al Comitato per le Attività Antiamericane [Commissione McCarthy], lavora come informatore per l’ufficio del deputato repubblicano della California, Richard M. Nixon. Si richiede di non interrogarlo pubblicamente nelle udienze sopra menzionate». La data: 14 novembre 1947. «E’ noto che in quel periodo Ruby lavorasse per la mafia di Chicago», osserva Mazzucco, «e il documento sembra quindi fornire l’anello mancante per il collegamento fra mondo “pulito” e mondo “sporco”, che fu assolutamente necessario per organizzare a Dallas un attentato che desse le massime garanzie di riuscita». Prescott Bush e la Germania di Hitler, la Cia di Allen Dulles, l’Fbi di Edgar Hoover, quindi Richard Nixon e infine George Herbert e George Walker, padre e figlio, direttamente alla Casa Bianca – l’ultimo sotto la tutela del potente Dick Cheney, emblema del Deep State. Le Torri Gemelle, l’Iraq, l’Afghanistan, l’incendio permanente in Medio Oriente. Potere, attentati, guerra e terrorismo: una dinastia in chiaroscuro, con ombre più che inquietanti attraverso svariati decenni, a tracciare una vera e propria storia parallela, accanto a quella ufficiale.

fonte: http://www.libreidee.org/

sabato 15 dicembre 2018

l'omicidio del Corpus Domini


Elvira era bella.
Elvira era dolce.
Elvira era gentile e piena di sogni, che non potrà mai realizzare.
Elvira si doveva sposare ed aveva già l’abito bianco nell’armadio, quello che nel giorno delle nozze l’avrebbe fatta sentire speciale.
Elvira aveva 22 anni quando un giorno di giugno del 1947 qualcuno si prese la sua vita e la sua giovinezza e la lasciò morire annegata nel suo sangue.
L’Italia del dopoguerra si stava ricostruendo, con fatica. In quell’anno il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi ricevette dall’America un’ingente somma che “sarà utile per il consolidamento del sistema democratico”. A maggio il nostro paese fu sconvolto dall’eccidio di Portella delle Ginestre. La banda di Salvatore Giuliano riempiva le pagine dei giornali, mentre si susseguivano i governi che avrebbero dovuto dare stabilità al nostro paese devastato dalla guerra. Pochi giorni dopo i fatti di Portella, un tribunale inglese condannò a morte il maresciallo Kesserling, per la strage delle Fosse Ardeatine.
Tutto questo sembrava così distante dal piccolo abitato Toiano, un borgo di poche anime contadine in provincia di Pisa. Elvira Orlandini viveva lì, nella casa di famiglia. Era nata nel 1925 da Antonio e Rosaria. Tutti in paese la consideravano la più bella. Grandi occhi limpidi e vivaci, curve generose, capelli scuri e fluenti. Elvira passava per andare a messa e tutti si voltavano, fantasticavano. Lei di grilli per la testa non ne aveva, o almeno così si diceva, ma sono passati tanti anni, e la verità rimarrà sepolta con il resto dei segreti di quella rigogliosa e discreta campagna.


5 giugno, il giorno del Corpus Domini. Alla radio si parlava di un americano, George Marshall: quella mattina aveva presentato un piano per la ricostruzione economica dell’Europa. La notizia passò, tutti la sentirono ma nessuno la ascoltò. Erano altre le cose che contavano. La realtà contadina di Toiano era fatta di fatica e sacrifici, erano altri i pensieri. La bicicletta era un bene prezioso, che si usava fra la polvere su e giù per le colline, il vestito buono era conservato per le grandi occasioni. Le scarpe si suolavano e si risuolavano, fino a che non ne potevano più. A casa Orlandini era così. Ma presto ci sarebbe stata quella grande occasione. Elvira si sarebbe sposata con un bravo giovane. Ugo Ancillotti, serio, lavoratore, taciturno e spesso ombroso. In paese si diceva che era così a causa dei patimenti che aveva subito in guerra: era un reduce.
Elvira lavorava sodo, nei campi per aiutare la famiglia e a servizio di una facoltosa famiglia di svizzeri che possedeva la tenuta San Michele, i Salt. Erano ricchi, potenti e chiacchierati. Tutti li temevano in paese. Mancavano pochi giorni alla mietitura e poi lei e Ugo sarebbero diventati marito e moglie. La sera prima di coricarsi, forse, nel silenzio della sua stanza, interrotto solo dal canto dei grilli, Elvira apriva l’armadio per sbirciare il suo abito, per sognare a occhi aperti, come facevano tutte le ragazze della sua età.


Le due del pomeriggio. Il primo caldo, la prima afa e nubi cariche di pioggia all’orizzonte. Papà Antonio era nei campi, ad accudire i buoi, mamma Rosaria e le figlie stavano sistemando la cucina dopo il pranzo. In paese erano in corso i preparativi per la festa del Corpus Domini, a cui tutti avrebbero partecipato. Elvira uscì per andare alla fonte a prendere l’acqua. Doveva percorrere circa quattrocento metri a piedi. Aveva una brocca in mano e un asciugamano di iuta sulla spalla. Lungo la strada incontrò un’amica, Iva Pucci. Un sorriso, un saluto, quattro chiacchiere, poi Iva proseguì la sua passeggiata, aveva già preso l’acqua qualche ora prima.
Una curva sul sentiero e la ragazza sparì, inghiottita dal silenzio della campagna, dal frinire delle cicale.
Due ore dopo Elvira non era ancora rientrata. Madre e sorelle si preoccuparono, pensavano si fosse fermata lungo la strada a chiacchierare, ma si stava facendo tardi. Così mamma Rosaria si incamminò verso la fonte per cercarla, chiedendo a chiunque incrociasse se aveva visto la sua bambina.
Elvira non c’era da nessun parte. Così Rosaria decise di tornare casa a chiamare il marito. Antonio e il cognato Giovanni, con cui era nei campi, lasciarono il lavoro e corsero alla fonte. Una volta arrivati notarono per terra una grossa chiazza di sangue e segni di trascinamento verso il bosco. Rami spezzai indicavano il percorso.


Quella era una zona di fitta vegetazione, il Bosco delle Purghe, attraversata da un vecchio canale di scolo chiamato Botro della Lupa, che dalla fonte si allargava scendendo verso valle. I due uomini, cominciarono a camminare fra i cespugli, seguendo la traccia. Antonio davanti, Giovanni a breve distanza. Alcuni passi ancora e a terra videro le ciabatte di Elvira, ben sistemate una sopra l’altra, con accanto la brocca. Dopo pochi metri, dove il bosco era più fitto, c’era il suo corpo senza vita. Elvira era lì, con la gola squarciata: un taglio da 12 centimetri. Il sangue era dappertutto: sul suo viso, in bocca, sui vestiti, a terra.
Antonio non ci poteva credere. Preso dal panico, afferrò il corpo della figlia per il busto, insieme a Giovanni, in un disperato tentativo di salvarla, di trascinarla fino alla fonte. Non si rese conto che stava compromettendo irrimediabilmente la scena del crimine. Due giovani del paese, in bicicletta, si trovavano a passare in quel momento. Videro la scena e cercarono di aiutare, ma ormai non c’era nulla da fare. Corsero a chiamare i carabinieri, che arrivarono sul luogo del delitto in pochi minuti.
Il corpo della ragazza era ancora caldo. Il sangue dalla ferita sul collo le era colato nei polmoni, soffocandola in pochi secondi. Presentava altri segni di coltellate, inferte dopo la morte, sul cranio, almeno tre. Mancava l’asciugamano, sparito come il coltello. Elvira era senza mutandine. Pochi dubbi, anzi nessuno. Secondo il maresciallo dei carabinieri accorso sul posto, il colpevole non poteva che essere uno: Ugo Ancillotti.
E poi il suo comportamento era davvero strano. Come mai era arrivato sul luogo del delitto senza che nessuno glielo avesse indicato? E i suoi pantaloni? Presentavano delle macchie di sangue sospette.
Chiedendo in giro, a chi li conosceva, era emerso che spesso e volentieri i due giovani litigavano. Per un certo periodo si erano anche allontanati, per poi tornare insieme e decidere di sposarsi.
Gli elementi per chiudere in fretta il caso c’erano tutti. Il maresciallo era convinto che interrogando, senza troppi convenevoli, il giovane Ancillotti, questi sarebbe capitolato e avrebbe confessato ciò che aveva fatto in preda ad un attacco di folle gelosia. Ugo venne arrestato. Restò in carcere due anni. L’opinione pubblica teneva gli occhi puntati sul processo, sulle indagini, sugli indizi presentati a carico, sulla strategia della difesa.


Si faceva un gran parlare di quel ragazzo discreto e timido, del reduce dal bell’aspetto. E di Elvira?
Anche di lei si parlava. Le testimonianze, le voci, la ricerca della verità. A quel tempo, come oggi, della vittima si ebbe poco rispetto. Si cercava di capire se davvero Ugo l’avesse uccisa, quando avesse perso la verginità e con chi, se c’era come, come si diceva un ritardo nel ciclo della giovane prima di morire. E il lavoro dai Salt? Anche quello fu passato al microscopio, suscitando lo sconcerto e la disperazione della famiglia. Il paese era schierato con il giovane imputato, mentre l’opinione pubblica duellava fra innocentisti e colpevolisti. A difendere l’Ancillotti, per altro gratuitamente, fu Giacomo Picchiotti, noto avvocato e parlamentare socialista. Accanto a lui sedevano altri due importanti principi del foro, Gattai e Gelati. Per loro era innocente e doveva essere assolto: le prove a suo carico erano indiziarie. L’aula del tribunale divenne un’arena, fra applausi e risate.  Moltissime furono le lettere di mitomani alla corte, di folli che si auto accusavano dell’omicidio. Centinaia i messaggi per Ugo, che lo sostenevano, che lo esortavano a non cedere alle false accuse che gli erano state mosse. Il processo fu trasferito a Firenze. La difesa dimostrò che l’apparato accusatorio era inconsistente: Ugo era arrivato in bicicletta sul luogo del delitto senza che gli fosse indicato perché la strada che stava percorrendo per andare a casa di Elvira, passava proprio davanti al bosco dove fu ritrovata. La testimonianza dell’amica Iva era poco attendibile: durante il dibattimento raccontò di un incontro, fra Elvira e Ugo, nel bosco proprio il giorno dell’omicidio, ma nulla era emerso a poche ore dal ritrovamento del cadavere. E quelle impronte di scarpe n° 40 nei pressi del corpo? Ugo calzava il 43. Il sangue sui pantaloni fu escluso quasi subito; le macchie rilevate erano talmente piccole che non potevano essere compatibili con l’efferatezza della ferita inferta: gli schizzi di sangue dalla gola avrebbero imbrattato ovunque. Quella mattina poi i due erano stati a messa insieme in paese, che era finita alle 13.30 circa: il ragazzo non avrebbe avuto il tempo materiale per compiere il delitto.
Alla fine del processo l’accusa chiese 18 anni. Le prove raccolte dal maresciallo Leonardi non furono sufficienti per fugare ogni dubbio. La famiglia Orlandini si batté fino all’ultimo, convinta della colpevolezza del giovane. Il paese si schierò invece in sua difesa. Ugo Ancillotti fu assolto dopo solo tre ore di camera di consiglio, il 21 luglio 1949.
Nessun colpevole. Molte prove raccolte durante il processo non furono considerate: ad esempio la lettera anonima spedita ad Ancillotti poche settimane prima del matrimonio, in cui gli si diceva di non sposare la Orlandini, ma senza specificare il perché. Inoltre la giovane stava, nell’ultimo periodo, deperendo fisicamente. Temeva di essere incinta, lo aveva confessato ad una maga sua conoscente, di un uomo sposato e per questo temeva per la sua vita.
Fiumi di parole, di voci, di testimonianze, vere o false che fossero, si riversarono su quello che doveva essere il processo per consegnare alla giustizia l’assassino di una giovane ragazza di 22 anni. In realtà il clamore che ne scaturì distolse l’attenzione da Elvira e dalla sua triste fine. Il suo assassino non fu mai scoperto. Il 30 marzo 2013, morì Ugo, l’ultimo fra i protagonisti di questa vicenda. Fino alla fine dei suoi giorni non smise mai di professarsi innocente.
E la bella Elvira? Qualcuno dice che si aggiri ancora oggi nel Bosco delle Purghe in cerca di pace.

Rosella Reali

fonte:  https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia

Paolo Falconi, La bella Elvira. Toiano 1947: il delitto del Corpus Domini, il "giallo" di una storia vera di Paolo Falconi, CDL Libri, 2002.


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ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

domenica 9 dicembre 2018

le proteine della frutta


A cura del Prof. Armando D’Elia

Quando si parla di proteine qualificandole come uno dei cosiddetti principi alimentari, occorre sempre tener presente che tutti codesti principi partecipano assieme, alla sintesi della materia cellulare: deve prevalere, cioè una visione olistica, globale, “sinfonica”, in quanto tutti i nutrienti sono interdipendenti e tutti sono egualmente indispensabili. Si può essere certi che, viceversa una visione settoriale da luogo a valutazioni errate.

Del resto, tale interdipendenza è comprovata dal fatto che le proteine sono mal digerite in assenza di vitamine e che il loro metabolismo dipende da quello dei glucidi e dei lipidi, almeno in parte.

Questo ci fa pensare subito al nostro cibo naturale, la frutta, dove, appunto, la coesistenza ed interdipendenza dei diversi principi alimentari da luogo ad un complesso (fitocomplesso) armonioso che rappresenta, nel contempo, l’optimum anche dal punto di vista nutrizionale.

Abbiamo prima affermato che l’uomo della foresta, dove aveva vissuto per milioni di anni, dovette passare nella savana. Ora, nella foresta era fruttariano, mentre nella savana, difettando la frutta, dovette divenire carnivoro; forse l’organismo umano, adattandosi alla alimentazione carnea, assunse le caratteristiche anatomiche e fisiologiche tipiche dei carnivori? NO, conservò le caratteristiche del fruttariano ...



Oggi, infatti, dopo milioni di anni di innaturale alimentazione carnea, le nostre unghie non si sono trasformate in artigli, il nostro intestino non si è accorciato, i nostri canini non si sono allungati trasformandosi in zanne, il nostro succo gastrico non ha aumentato la sua originale e debole acidità tipica dei fruttariani, il fegato non ha esaltato la sua capacità antitossica, ne è scomparsa l’istintiva attrazione esercitata sull’uomo in età infantile dalla frutta e neppure è scomparsa la altrettanto istintiva repulsione esercitata dalla carne sul bambino appena svezzato. Tutti segni, questi, che le proteine eccessive che, assieme ad altre caratteristiche negative, sono presenti nella carne, pur provocando danni enormi, non sono riuscite a modificare la struttura fisiopsichica dell’uomo: ciò dimostra che l’alimentazione carnea è così estranea agli interessi nutrizionali e biologici dell’uomo che questi non riesce ad adattarvisi, pur subendo le pesanti conseguenze di un innaturale carnivorismo per lunghissimo tempo.

Partendo da queste e da altre considerazioni il prof. Alan Walker, antropologo della John Hopkins University, è giunto alla conclusione che la frutta non è soltanto il nostro cibo più importante, ma è l’unico al quale la specie umana è biologicamente adatta. Per comprovare tale affermazione, Walker ha studiato lungamente le stilature ed i segni lasciati, nei reperti fossili, sui denti, dato che ogni tipo di cibo lascia sui denti segni particolari; scoprì, così, che “ogni dente esaminato, appartenente agli ominidi che vissero nell’arco di tempo che va da 12 milioni di anni fa, sino alla comparsa dell’Homo erectus, presenta le striature tipiche dei mangiatori di frutta, senza eccezione alcuna”.

Istintivamente, quindi, i nostri progenitori mangiavano quello che la natura offriva loro, cioè la frutta matura, colorita, profumata, carnosa, dolce. Ed è facile immaginare che i nostri progenitori mangiassero la frutta spensieratamente, nulla sapendo (beati loro!) sulla quantità e sulla qualità di proteine contenute nella frutta, guidati unicamente dall’istinto… e se la passavano bene.

E’ chiaro che la frutta è il miglior cibo, del tutto naturale, per l’uomo e per l’intera sua vita, a cominciare dal momento in cui è in grado di masticare. Il fruttarismo dell’uomo è innato, perché sbocciato dall’istinto, che ripetiamolo – è l’espressione genuina, perfetta, indiscutibile dei bisogni fisiologici nutrizionali delle nostre cellule; esso si manifesta anche prima della fine della lattazione, reso evidente dalla appetibilità e anche dalla avidità con le quali il bambino ancora lattante assume succhi di frutta fresca, che possono sostituire in certi casi anche il latte materno (succo d’uva, per esempio, come suggeriva Giuseppe Tallarico, medico illuminato, nella sua opera maggiore “La vita degli alimenti”).

Abbiamo prima, accennato alla masticazione. Per masticare occorrono i denti ed i denti cominciano a nascere verso la fine della lattazione, cioè del periodo in cui l’accrescimento del cucciolo umano è affidato alla suzione della secrezione lattea delle ghiandole mammarie della madre. Domanda: perché al termine della lattazione (e anche prima) l’istinto ci orienta decisamente verso la frutta? La risposta è semplice: esiste una strettissima correlazione tra il latte, che è il primo nostro cibo, necessariamente liquido, e la frutta, cibo che succederà al latte e che ci accompagnerà, nutrendoci, per il resto della nostra vita.

Esiste, quindi, iscritta biologicamente nell’atto di nascita della nostra struttura anatomica e della nostra fisiologia, una “continuità nutrizionale tra il latte materno e la frutta”, per cui possiamo a giusto titolo considerare questi due alimenti i prototipi alimentari ancestrali dell’uomo.

Per dimostrare quanto conclusivamente è stato detto nel precedente ‘stelloncino’ sulla continuità nutrizionale tra il latte materno e la frutta, bisogna tenere presente quello che ripetutamente abbiamo già affermato e cioè:

1. All’uomo non si addicono cibi ad alto contenuto proteico, che risulterebbero dannosi alla sua salute;

2. l’uomo ha un fabbisogno singolarmente modesto di proteine, come è facilmente dimostrabile esaminando il latte materno.

Partiamo dall’argomento “latte materno”, che funzionerà da battistrada nella dimostrazione della sua continuità nutrizionale con la frutta. E’ noto che entro il sesto mese di vita extrauterina l’uomo giunge a raddoppiare il proprio peso e a triplicarlo entro il 12°, alimentandosi unicamente con il latte materno. Tutti i testi di chimica bromatologica e di fisiologia umana ci informano che il latte materno contiene l’1,2% di proteine. Ebbene, non è proprio così, in quanto, sino a 5 giorni dopo la nascita del figlio, il latte umano contiene il 2% di proteine e questa percentuale, a partire dal 6° giorno, comincia a calare progressivamente e lentamente sino a raggiungere, dopo 3-4 settimane, 1’1,3% e, dopo 7-8 settimane, 1′ 1,2%, percentuale che verrà poi mantenuta più o meno costante sino alla fine dell’allattamento.

Si constata, in sostanza, un evidente e regolare decremento del contenuto proteico del nostro unico “primo alimento” a misura che il neonato si avvia, con la comparsa progressiva dei denti, ad acquisire capacità masticatorie. Raggiunta tale capacità, ha termine quel periodo, dalla nascita allo svezzamento, che costituisce indubbiamente la fase anabolica più impegnativa, più intensa e più difficile dell’intera vita umana e che superiamo, come si è visto, con un cibo (il latte materno) contenente le modeste percentuali di proteine prima indicate.

Poiché la velocità di accrescimento è massima nei primissimi giorni di vita e poi via via decresce, è logico anche che la percentuale delle proteine contenute nel latte, e che costituiscono il necessario materiale di costruzione, debba seguire lo stesso andamento.

L’accrescimento ponderale dell’individuo continua, come si sa, anche dopo la comparsa dei denti, per terminare tra i 21 e 24 anni, ma con una velocità estremamente ridotta rispetto a quella del lattante.

E’ pertanto del tutto ovvio che l’alimento che subentrerà al latte materno dovrà avere una percentuale di proteine corrispondente ai reali bisogni di proteine dell’individuo non più lattante, in linea con la decrescenza, prima comprovata, di tali bisogni proteici. Riassumendo, “il fabbisogno proteico dell’uomo è massimo nel lattante, medio nell’adolescente, minimo nell’adulto”: questo ci dice il grande igienista Attilio Romano nel suo aureo lavoro “Pregiudizi ed errori in tema di alimentazione “; su questo insiste anche il prof. Alessandro Clerici nel suo Lavoro “Come si deve mangiare”. Occorre osservare:

Senza alcun dubbio spetta al medico tedesco Lahmann il merito di avere, da pioniere illuminato, gettato, nel campo della dietetica umana, le basi scientifiche del fruttarismo, avendo scoperto e dimostrato che esso costituisce la innata prosecuzione naturale dell’alimentazione lattea.
Ancora prima del Lahmann, un altro “grande”, Max Rubner, docente di cllnica medica all’Università di Berlino, aveva richiamato l’attenzione degli studiosi suoi contemporanei (e il Lahmann colse l’importanza di tale appello) sul fatto che “la scarsezza di proteine nel latte materno è un segno distintivo della specie umana che sconfessava i paladini dei regimi ricchi di proteine”.

Questa è la regola che vige in natura: destinare ai diversi esseri viventi cibi che contengano i principi alimentari indispensabili, ma solo nella quantità necessaria, che deve essere considerata l’optimum per l’individuo. Tanto è vero che non possiamo nutrire un neonato umano, il cui latte contiene 1′ 1,2% di proteine, con il latte per es. di mucca, che contiene il 3,5% di proteine senza determinati accorgimenti come la elementare diluizione, nel tentativo di evitare enteriti e altri malanni, anche gravi.

Il corpo umano, quindi, osserva proprio questa regola, cioè la cosiddetta “legge del minimo”, che a nostro parere potrebbe anche (e forse “meglio”) chiamarsi “legge dell’optimum” in quanto, se l’individuo ingerisce cibi contenenti dei nutrienti in quantità eccedenti il proprio fabbisogno, tale eccesso diviene per l’organismo una vera e propria scoria tossica ed il corpo cerca in tutte le maniere di sbarazzarsene, cosa che avviene in speciale modo per le proteine, come in precedenza s’è già detto.

Poiché la velocità di accrescimento dell’individuo non più lattante è decisamente inferiore a quella che aveva durante l’allattamento, è naturale ed ovvio che il contenuto proteico del primo cibo solido che l’uomo assume dopo lo svezzamento debba essere inferiore a quello del latte materno e da considerarsi l’optimum secondo la “legge del minimo”. Ciò, in armonia con il reale diminuito bisogno di proteine.

Ebbene, tale cibo non può essere che la frutta, che ha, appunto, in media, un contenuto proteico adeguato ai bisogni nutrizionali normali della fase successiva allo svezzamento:

cioè, mediamente inferiore a quella riscontrata nel latte materno che nel periodo terminale dell’allattamento si aggira attorno all’1,2%, come si disse.

A questo riguardo è interessante l’opinione del dottor Lovewisdom, uno dei più profondi studiosi dell’alimentazione naturale dell’uomo. Egli ci dice nel suo libro “L’adulto umano non ha bisogno di alimenti che contengono più dell’1% di proteine” “L’homme, le singe et le Paradis”. Del resto, una volta completato l’accrescimento, il nostro fabbisogno di proteine serve solo alla sostituzione delle cellule perdute per usura, cioè al semplice mantenimento dell’equilibrio metabolico e a tale scopo la frutta acquosa è più che sufficiente.



TUTTI I VEGETALI CONTENGONO PROTEINE


Tutti i vegetali, anche i più negletti e poco noti, contengono proteine, nessuno escluso: questo è un punto fermo, che occorre tenere sempre presente.

Diversi studiosi di vegetarismo sostengono essere sempre necessario integrare la frutta con altre parti tenere e succose di vegetali, sempre crude e fresche, sia pure in pasti separati, cioè con: radici (carota, rapa, sedano-rapa, barbabietola rossa), ricettacoli floreali e base delle brattee (carciofo), foglie, gambi e germogli (lattuga, cicoria, sedano, spinacio, cavoli di vario tipo), turioni (asparago, finocchio), infiorescenze e gambi (cavolfiore, broccoli di vario tipo), bulbi (cipolla), ecc. (tutti questi vegetali sono comunemente chiamati “ortaggi” in italiano, “légumes” in francese).

Elenchiamo ora i più comuni frutti carnosi con i relativi contenuti proteici, in percentuale e le percentuali di proteine presenti negli ortaggi più comuni, limitatamente a quelli che si possono utilizzare crudi:

FRUTTA
albicocca 0,8
anguria 0,9
arancia 0,9-1,3
avocado 2,6
banana 1,4
cetriolo 0,9
ciliegia 1,2
dattero 2,2
fico 1,5
fico d’India 0,8
fragola 0,95
kaki 1
lampone 1,4
limone 0,9
mandarino 1
mela 0,35
melone 1,3
mora 1
nespola 0,45
peperone 1,2
pera 0,6
pesca 0,7
pomodoro 1
prugna 0,8
uva 1-1,4
zucchina 1,5
media: 28,75/26 =1,1%

VERDURE
asparago 1,8
barbabietola 1,2
barbabietola rossa 1,6
cavolfiore 2,6
carciofo 2,4
carota 1,2
cicoria 1,6
cipolla 1,4
cavolo verza 3,3
cavolo rosso 1,9
finocchio 1,9
lattuga e simili 1,3
pastinaca 1,7
porro 2
ravanello 1
sedano (foglie/gambi) 1,3
sedano-rapa 1,5
spinacio 2,2
media: 31,9/18 = 1,78%

Sarebbe, a questo punto, errato fare conclusivamente la media aritmetica tra il contenuto proteico medio della frutta e quello degli ortaggi per ricavare direttive alimentari pratiche. 

Tale calcolo darebbe 1,44 [(1,1 + 1,78)/2] e sarebbe valido se la nostra alimentazione fosse costituita per il 50% da frutta e per il 50% da ortaggi. Occorre invece dare netta preponderanza alla frutta, che è il principe dei nostri alimenti perché fu il cibo primigenio dell’uomo, quello con il quale il corpo umano si è forgiato. Dando invece in giusta misura la prevalenza alla frutta, in media la carica proteica dei cibi che dovrebbero essere utilizzati dall’uomo si attesta su 1,3% circa. Tale percentuale è largamente sufficiente, anzi superiore (sempre in media, che è quel che conta) al fabbisogno dell’uomo, specie dopo il completamento dello sviluppo, cioè dopo il 24° anno di età. Del resto, ciò è comprovato dal fatto che i fruttariani non soffrono di alcuna carenza e non hanno problemi di salute. 

Naturalmente i risultati dei calcoli sopra riportati non sono da prendere, “alla virgola” o al centesimo, ma vogliono avere, ed hanno, un valore orientativo generale e soprattutto vogliono offrire, ed offrono, una prova della continuità nutrizionale tra il latte materno e la frutta. A proposito dell’ottimale validità nutrizionale del fruttarismo potremmo dilungarci a riportare autorevoli opinioni, altri fatti, altre argomentazioni scientifiche per dimostrare tale validità, che garantisce all’uomo fruttariano il godimento di una piena salute fisio-psichica: ma su tutto l’abbondante apporto probatorio che così raccoglieremmo dominerebbe la prova-base, la più incontestabile, già da noi prima evocata, ma che tuttavia torniamo ad evocare: nella foresta, patria originaria dell’uomo, questi visse in perfetta salute, sugli alberi fruttiferi, per milioni di anni, alimentandosi di frutta e – sostengono ipoteticamente alcuni studiosi, come Lovewisdom – anche di altre parti tenere di vegetali.

Molto probabilmente il lettore si chiederà che bisogno c’è di dimostrare che la carica proteica del latte materno è la stessa (o presso a poco) non solo di quella della frutta, ma anche quella dei cosiddetti ortaggi. Non s’è detto che l’uomo preistorico viveva sugli alberi fruttiferi nutrendosi solo di frutta?

Insomma, la sola frutta è sufficiente o no ad alimentare l’uomo? Cerchiamo di rispondere qui di seguito a tali interrogativi.

Si è già accennato in precedenza che secondo alcuni studiosi la frutta andrebbe integrata con altre parti tenere e succose di vegetali; condividiamo tale opinione, ma Poichè condividiamo anche la tesi di Cornei, Tallarico, Carquè, ecc., che cioè i nostri più antichi progenitori arboricoli si nutrivano “solo” di frutta, siamo tenuti a spiegare questa nostra apparente contraddizione.

Anzitutto, la frutta che i primi uomini mangiavano da arboricoli nella foresta intertropicale era, in quanto a capacità nutrizionale, enormemente superiore a quella di oggi esistente. La frutta d’oggi è infatti il risultato di migliaia di anni di frutticoltura che, dovendo commerciare con i prodotti della terra, lo fa utilizzando dei criteri di produzione della frutta basati su:

- rendimento della pianta
- colore
- taglia
- gusto
- struttura
- conservabilità
- facilità di raccolta
- sicurezza e continuo incremento del profitto.

Insomma la produzione odierna di frutta è profondamente artificiosa, mentre la frutta che nutriva l’uomo preistorico era il prodotto del libero giuoco delle forze vitali dell’aria, del suolo, delle arcane forze della natura, era figlia della luce, scrigno di energia solare, viva e vitalizzante, non cresciuta sotto lo stimolo anormale dei concimi chimici, dei diserbanti, degli anticrittogamici, i cui residui rendono oggi talora la frutta financo pericolosa per la nostra salute. c’è un abisso, dunque, tra la frutta che nutrì i primi uomini e la frutta d’oggi. L’uomo odierno a dire il vero comincia a rendersi conto che la frutta nutre poco e male e ha perduto i sapori della frutta “antica” di cui si sente la mancanza. Ed ecco sorgere, allora, iniziative tipo “archeologia dell’albero da frutta”, “banche del seme”, e soprattutto coltivazioni biologiche. Un esempio: la pera cosiddetta “spina” è la “pera antica”, bitorzoluta, contorta, decisamente brutta se guardala con l’occhio dell’esteta tradizionalista per il quale la pera, quella addomesticata, deve avere la forma classica e basta. In Italia di alberi di pere “spina” ne restano ormai pochi, destinati a sparire perché la gente vuole pere “belle” di parvenza e non nodose e brutte: anche se poi chi le assaggia rimane estasiato per il loro sapore, ormai non più riscontrabile nelle pere “moderne”, frutto di cultivar, incroci, innesti, manipolazioni genetiche, fitonnoni, ecc.. Lo stesso discorso vale per molte varietà di mele in via di scomparsa, come le mele “zitelle”, per esempio.

Deciso scadimento quindi, del valore nutrizionale della frutta moderna nei riguardi della frutta “antica” e quando diciamo “antica” ci riferiamo appena ad un secolo fa o già di là; ma a misura che andiamo a ritroso nel tempo la differenza si fa, ovviamente, sempre più marcata, tanto che riesce difficile solo immaginare quale potenza nutrizionale riservasse la frutta che servì alla nutrizione e alla crescita delle primissime generazioni dell’uomo arboricolo e fruttariano.

Abbiamo detto sopra che la gente ha cominciato a capire che la frutta odierna, nonostante che continuiamo ad essere da essa attratti, non solo nutre poco ma nutre anche male. Qui appresso spieghiamo perché.

Per effetto dei trattamenti e delle selezioni che l’uomo, come abbiamo prima accennato, applica in agricoltura e particolarmente in frutticoltura, la frutta prodotta è caratterizzata soprattutto da un eccessivo tenore di zuccheri.

Ora, è vero che il nostro organismo funziona proprio grazie allo zucchero, ma è anche vero che lo zucchero, come qualsiasi altro alimento, per essere assimilato, deve trovarsi associato con vitamine, specialmente quelle del gruppo B, minerali, aminoacidi ed altri elementi nutritivi, con i quali costituisce un fitocomplesso equilibrato ed armonico.

L’eccesso di zucchero oggi riscontrabile nella frutta crea invece squilibrio e disarmonia, per cui l’organismo non è in grado di utilizzare tutto lo zucchero presente nella frutta: ecco perché si disse che la frutta d’oggigiorno fa correre il rischio di nutrire “anche male”. Come ovviare a questo squilibrio? Includendo nella nostra dieta una consistente quantità di alimenti non zuccherati, in particolare verdure crude ed ortaggi vari, che forniscono in abbondanza vitamine, minerali ed aminoacidi essenziali, indispensabili per ottenere una nutrizione equilibrata.

L’aggiungere verdure ed ortaggi alla frutta, anche se questa rimarrà quantitativamente preponderante, è, quindi, un “correttivo”? Certamente, è un utile correttivo. Naturalmente, sia la frutta che le verdure e gli ortaggi, per conservare la loro efficacia nutrizionale, devono essere consumati crudi ed è anche buona norma utilizzarli in pasti separati. Ma aggiungiamo subito che si tratta di un correttivo “temporaneo” e qui di seguito spieghiamo perché diciamo che è temporaneo.

Abbiamo visto – riassumiamo – che la frutta odierna, rispetto alla frutta che nutrì l’uomo preistorico, difetta di potere nutrizionale (e si cerca nell’attuale processo, in atto, di riavvicinamento alla natura, di coltivarla biologicamente, come rimedio primo), ma eccede, invece, in contenuto di zuccheri (glucosio/fruttosio) (e si cerca di ovviarvi proponendo di accompagnarne il consumo con ortaggi, che potranno, così, partecipare all’approvvigionamento di proteine). Poiché, come è evidente, si tratta di una situazione, quella attuale, “in movimento”, a misura che progredirà l’agricoltura biologica, migliorerà anche la qualità della frutta attuale, i cui lati negativi (eccessi e difetti sopracitati) si attenueranno gradualmente e alla fine scompariranno.

Ovviamente, quando la frutta riacquisterà totalmente le caratteristiche che permisero il pieno affermarsi dell’uomo preistorico arboricolo e fruttariano, cesserà il bisogno o la semplice convenienza di ricorrere agli ortaggi e l’uomo tornerà ad essere fruttariano al 100% e sarà quello un grande giorno, che riteniamo non troppo lontano, dato l’incoraggiante crescente interesse per questo così importante problema.

Fonte: www.fruttariani.it

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/