CRISTO MORTO - ANDREA MANTEGNA

domenica 25 giugno 2017

la falsa neutralità della tecnologia

Quando si parla di tecnica/tecnologia, il pensiero comune è che questa non è, di per sé, né buona né cattiva, ma che dipende dall’uso che se ne fa. 

Storicamente, la tecnica/tecnologia, ha sempre diviso. Apologeti osannanti da un lato, detrattori/denigratori feroci dall’altro. 

Io faccio parte della seconda categoria (perché a mio modo di vedere per un apparente vantaggio che essa porta seguono inevitabilmente dieci svantaggi), ma rispetto e addirittura comprendo il pensiero di chi la difende e ne è pure entusiasta, perché questo pensiero, ancorché erratissimo a mio modo di vedere, segue comunque un suo filo logico, una sua visione del mondo e della Vita che in qualche modo fanno intendere, vedere, percepire la tecnologia come “positiva”. Lo ripeto, non sono d’accordo, ma ci sta.

Ciò che invece non tollero è quello pseudo-pensiero di massa (e il fatto che sia di massa ci dice che bisogna diffidarne in partenza perché per definizione il pensiero delle masse non è un pensiero libero), secondo il quale “la tecnologia non è in sé né buona né cattiva ma dipende dall’uso che se ne fa”. Questo concetto è relativamente recente, essendo stato formulato dal filosofo tedesco Karl Jaspers (1883-1969). In buona sostanza, afferma Jaspers, la tecnica/tecnologia è essenzialmente un fenomeno di per sé neutrale, un fenomeno le cui conseguenze dipendono, appunto, esclusivamente dall’uso che se ne fa...



Jaspers quando fece questa affermazione doveva trovarsi in leggero stato confusionale, perché nel momento stesso in cui afferma (in “Origine e senso della storia”) che la tecnica/tecnologia condiziona sempre l’essere umano che vive in quel mondo, che lo rende sempre più passivo e dipendente da essa, che questa cambia l’ambiente naturale perché ne impone uno sfruttamento che più si va avanti più diviene spinto e distruttivo, che impone una cultura del “meccanismo”, dell’automazione, della razionalità, dell’artificiosità, dopo tutto questo e altro ancora, della tecnica/tecnologia si può dire tutto tranne che sia un fenomeno neutro.

Si può esserne sostenitori perché si vede l’artificiosità, l’automazione, come un qualcosa di positivo, oppure detrattori perché li si coglie come negativi. Per certo l’unica cosa che non si può affermare è che la tecnica/tecnologia sia un qualcosa di neutro, un qualcosa che dipende dall’uso che se ne fa.

Secondo il pensiero comune, un telefono cellulare, non è di per sé positivo o negativo ma dipende, appunto, dall’uso che se ne fa. E’ indubbio che l’oggetto telefono cellulare possa essere utilizzato in maniera intelligente, responsabile, utile, in una parola in modo “positivo” (ad esempio: rimango coinvolto in un grave incidente stradale, chiamo l’ambulanza e questa arriva in tempo a salvarmi) oppure nel suo contrario, cioè in maniera idiota (ad esempio per mettere su Facebook la pizza che stiamo mangiando al ristorante per poi avere altri idioti che commentano “che buonaaaaa”, oppure, peggio ancora, “mmmmmmmmm”!).

E fin qui è tutto vero, compreso il fatto che nel momento in cui, più o meno costretti ad usarlo, dobbiamo cercare di adoperarlo nella maniera più intelligente possibile. Il fatto è che l’analisi si ferma qui e questa non è un’analisi. Se invece si fa un’analisi seria, se si cerca di andare oltre, se davvero si vuole andare alla radice di cosa davvero sono un telefono cellulare e quella tecnologia che lo ha generato, allora si capisce che la sua essenza è inevitabilmente negativa. Lo smart-phone (o qualunque tecnologia) non è qualcosa che cade dal cielo pronto e impacchettato. Il telefono cellulare esiste perché esiste un mondo attorno che in qualche modo lo ha creato. E con delle conseguenze ben precise.

Miniere di coltan in Congo

Basterà pensare alla devastazione ambientale che l’estrazione dei vari minerali necessari comporta (coltan, “terre rare”, ecc.), basterà pensare allo sfruttamento umano che questa implica (uomini e sempre più spesso bambini, che essendo piccoli riescono a “intrufolarsi” meglio nei cunicoli di queste miniere, e altrettanto spesso ci lasciano vita), basterà pensare ai ripetitori ormai ovunque che devastano il paesaggio e hanno impestato anche lo spazio, basterà pensare alle plastiche e vernici inquinanti che li compongono, basterà pensare ai danni alla nostra salute per via delle onde e dei campi elettromagnetici che il telefono cellulare genera, basterà pensare alle posizioni monopolistiche dei gestori della telefonia cellulare (posizioni monopoliste di cui la gente è sempre più vittima), basterà pensare ai fenomeni di “controllo sociale” a cui “grazie” ai moderni telefoni cellulari siamo arrivati, basterà pensare all’isolamento relazionale in cui tutti (soprattutto i più giovani), grazie anche al telefono cellulare, ci troviamo sempre più immersi, basterà pensare che questa connessione continua significa in realtà una disconnessione dal mondo vivente, basterà pensare che la tecnologia che sta dietro la telefonia cellulare è di derivazione militare (così come internet e tutto il resto), basterà pensare all’ambaradan pubblicitario e di prestiti finanziari (cioè gente che si indebita per comprarlo) che essa muove, basterà pensare che una volta gettato via e sostituito con uno più nuovo, quel telefono cellulare diventerà un rifiuto iperinquinante per i mari, le terre, l’aria che respiriamo.

Ecco, tutto questo e tanto altro, rappresenta la tecnologia che c’è dietro il telefono cellulare, e questa è la sua essenza perché inevitabile. Senza peraltro dimenticare che mentre l’utilizzo positivo del telefono cellulare (nel nostro esempio, rimango coinvolto in un incidente stradale, chiamo l’ambulanza e questa arriva d’urgenza e mi salva) è sempre potenziale, gli aspetti negativi (vedi sopra) ne rappresentano la precondizione. Senza questi non ci sarebbe alcun telefono cellulare. Arrivati a questo punto domando: il telefono cellulare è ancora neutro? Dipende ancora dall’uso che se ne fa?


Ma si può andare ovviamente oltre.
Ad esempio la tecnologia ci allontana progressivamente e inevitabilmente dalla natura (perché quel suo carattere di artificiosità rappresenta esattamente questo, un allontanamento dalla Natura), ci rende più schematici, più sbrigativi, più impazienti, più “veloci” (salvo però avere ritrovarci ad avere sempre meno tempo per il nostro vivere, che è/dovrebbe essere, ciò che conta), ci rende sempre più dipendenti da essa e con ciò sempre più deboli e non in grado di far fronte alla Vita autonomamente ma esclusivamente attraverso delle protesi artificiali di vario genere da cui siamo sempre più dipendenti (e il telefono cellulare è una di queste). La tecnologia ci fa relazionare sempre più con un mondo morto anziché con quello vivo e pulsante della natura e dei rapporti umani, ci spegne progressivamente (basterà vedere la differenza di gioia, entusiasmo spontaneo, creatività, forza, coraggio, tra un bimbo nato e cresciuto nella natura ed un piccolo zombie nato in città e costretto a relazionarsi con videogiochi, programmi televisivi, ecc…).

Nel momento in cui la tecnica/tecnologia prende piede, essa tenderà progressivamente a trasformarci sempre più in esseri tecnici/tecnologici, tenderanno progressivamente, e sempre più, ad uniformare la nostra visione del mondo e della Vita a quella della tecnica/tecnologia, rendendoci incapaci di distinguere tra ciò che è naturale e ciò che non lo è, e anzi a considerare naturale tutto ciò che è artificiale (a partire dai nostri stili di vita) e ad adottare tutti quei rimedi che essa ci propone.

La tecnologia rappresenta un vero e proprio schema mentale all’interno del quale ci troviamo ingabbiati, basti pensare, tanto per dirne una, che consideriamo normale (naturale) condizionare l’aria (aria condizionata). In definitiva la tecnica/tecnologia non e’ affatto rappresentata dagli strumenti che essa produce (e la cui “positività” o meno dipendono dall’uso che se ne fa), ma piuttosto un modo di intendere la Vita e il mondo in una maniera piuttosto che in un altra (artificiale piuttosto che naturale). Infatti la tecnica/tecnologia non solo crea un mondo artificiale a fianco di quello naturale, ma piuttosto e soprattutto sostituisce il primo al secondo; l’avanzata di uno rappresenta la progressiva scomparsa dell’altro; e questo con tutte le conseguenze del caso, conseguenze facilmente intuibili semplicemente guardandoci attorno.

Comunque, per essere chiari, il risultato della tecnologia non è mai estraneo al modo di pensare che la concepisce, e questo significa che per ogni suo risultato negativo, la mente tecnologica non potrà far altro che ricercarne la soluzione all’interno del suo stesso schema, provocando di fatto, una ulteriore avanzata tecnologica. E questo perché una mente oramai tecnologicizzata riuscirà a concepire solamente una risposta tecnologica ad un problema portato dalla tecnologia. Non può fare diversamente perché i suoi schemi di pensiero sono uniformati a quelli di una visione tecnologica. Ma come Einstein aveva intuito con grande lucidità, un problema non può mai essere risolto dalla stessa mente (schema mentale) che lo ha generato.

Che poi all’interno di questo grande calderone la tecnica/tecnologia possa essere usata in maniera più o meno intelligente, più o meno positiva, più o meno consapevole, nessuno lo nega. Nessuno equipara un pannello solare ad un’arma micidiale progettata appositamente per uccidere il maggior numero di persone nel più breve tempo possibile, ma ciò non toglie che anche il pannello solare (con gli ovvi e dovuti distinguo), abbia a monte quelle caratteristiche che informano l’arma micidiale. Il che rende anche il pannello solare, ipso facto, negativo.

In conclusione, la tecnologia non cade dall’alto, non cresce da sola su un albero, non la si raccoglie come fosse un frutto. Ripensiamo per un attimo all’esempio di cui sopra del del telefono cellulare per la cui realizzazione saranno necessari minerali e terre rare e quindi occorrerà disboscare, scavare, inquinare, avvalersi della schiavitù di adulti e bambini che li devono recuperare da miniere che penetrano nelle viscere della terra, e tanto altro ancora. 

Ecco, quando qualcuno mi dice che la tecnologia è neutra, che dipende dall’uso che se ne fa, vorrei che mi dicesse anche che il prossimo telefono se lo costruirà da solo andando, tra le altre cose, in miniera per recuperare quei minerali e quelle terre rare indispensabili per la sua realizzazione e funzionamento. Ci vada lui per primo in miniera, dopodiché discuteremo se la tecnologia è davvero neutra, se davvero dipende dall’uso che se ne fa.

Fonte: blog.italiachecambia.org

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it/

Si può leggere anche: Il costo umano di uno smartphone

Pearl Harbor: un'altra false flag

''..e mentre sto parlando a voi, madri e padri, vi do un'altra assicurazione. L'ho gia' detto altre volte, ma lo ripetero' all'infinito. I vostri ragazzi non verranno mandati a combattere nessuna guerra straniera....potete quindi definire qualsiasi discorso sull'invio di eserciti in Europa come pura menzogna''

Riguardo allo storico attacco di Pearl Harbor, i libri di scuola, i film, i documentari e tutti i reportage storici allineati alle versioni ufficiali ci hanno raccontato solo una verita' di comodo. Attraverso i canali d'informazione istituzionali e' stato ripetuto fino alla nausea che nel 1941 un brutale attacco aereo giapponese a sorpresa anniento' la flotta americana del Pacifico, lasciando sul campo migliaia di vittime innocenti. Tale versione dei fatti venne diramata dalla Casa Bianca allo scopo di scatenare l'indignazione del popolo americano. Da qui, a legittimare la sua chiamata al fronte come un dovere morale, il passo e' stato molto breve.
Sono passati molti anni da quel drammatico 7 dicembre 1941, ma la storia continua a riemergere inquietante, come il cadavere di un omicidio che non vuole affondare. Le numerose inchieste pubbliche e private condotte su Pearl Harbor sembrano infatti avere raccolto ormai sufficiente materiale probatorio per ricostruire una volta per tutte il vero corso degli eventi in questione.

La censura della storia

Il Giappone, contrariamente a quanto viene convenzionalmente accettato nella letteratura istituzionale didattica mondiale, venne deliberatamente provocato a reagire militarmente da Roosevelt (Gran Maestro massone del 33°) in tutti i modi possibili. Tale strategia d'azione fu definita nero su bianco nel riservatissimo piano McCollum, uno scottante documento che alcuni ricercatori sono riusciti a rendere di pubblico dominio.
Nel corso del tempo, inoltre, sono emerse numerose prove che dimostrano come i servizi dell'Intelligence americana riuscirono a decriptare tempestivamente tutti i piani dell'imminente attacco giapponese. La strage di Pearl Harbor, quindi, poteva essere evitata e con essa naturalmente anche la partecipazione dell'America alla guerra. A confermarlo, ci sono persino le testimonianze rese da alti ufficiali della marina americana (come quella dell'ammiraglio Husband Kimmel o del generale Richardson). Ed e' proprio da questi ultimi infatti che e' partita la 'prima pietra dello scandalo'. Le loro versioni sulla vicenda sono oggi disponibili in molte dettagliatissime pubblicazioni, a cominciare, da 'Il giorno dell'inganno' di Robert B. Stinnet (pluridecorato USA per il valore militare 1942-46).
Le fonti delle informazioni che sono alla base delle accuse contro Roosevelt non sono costituite (come qualcuno potrebbe pensare) dalle malsane elucubrazioni di estremisti anti-americani, ma provengono direttamente dagli archivi miltari USA o dagli stessi ufficiali della marina che prestarono servizio durante la guerra del Pacifico. La ragione di questa situazione per cosi' dire 'anomala' e' in realta' molto semplice da spiegare. Il piano McCollum caldeggiato da Roosevelt ha rappresentato un crimine commesso contro tutte le nazioni che poi sono state chiamate alle armi. La prima vittima di questa tipologia di complotti e' sempre stata il popolo, non da ultimo proprio quello americano, ammiragli compresi. Ecco perche' tra i cosiddetti 'anti-americani' che si oppongono alla versione ufficiale su Pearl Harbor compaiono anche i nome 'ingombranti' di autorevoli studiosi e testimoni a stelle e striscie. Molti di loro infatti compresero perfettamente che il vero nemico della pace non venva dal lontano Pacifico, ma si annidava invece nella stessa America, tra i membri della Casa Bianca e gli abitanti dei lussuosi uffici di Wall Street.
Di conseguenza, le generiche accuse di antiamericanismo rivolte contro chiunque cerchi di portare a galla la verita' su Pearl Harbor risultano essere veramente fuori luogo.
Viceversa, le prove contro il governo Roosevelt pesano come un macigno che nessun perito della commissione ufficiale d'inchiesta e' riuscito a smuovere di un millimetro. La flotta USA avrebbe potuto tranquillamente essere messa in salvo, ma si fece l'esatto opposto, affinche' migliaia di soldati americani trovassero la morte sotto le bombe giapponesi.
Perche'? La risposta e' tanto chiara quanto scandalosa. Il vero obiettivo di Roosevelt era quello di creare il roboante casus belli di cui avevano bisogno i poteri forti per coinvolgere la nazione americana nel conflitto. E dallo stesso momento in cui venne deciso che le navi da guerra USA con tutto il loro carico umano sarebbero servite da esca, la base di Pearl Harbor venne deputata a questa funzione sacrificale. Quella che accadde dopo fu solo la cronaca di una strage annunciata...
Il Giappone quindi non solo si trovo' a dover sopportare le gravi azioni di provocazione messe in atto con il piano McCollum, ma venne anche 'indotto in tentazione' dallo stesso Roosevelt che 'suggeriva' ai generali nipponici la soluzione della crisi con un colpo di mano. Come?
Semplicemente 'porgendo il fianco' della sua flotta al nemico. Le navi da guerra americane infatti vennero constantemente mantenute in zona di pericolo per ordine diretto del presidente. Il comando giapponese fu cosi' spinto a credere di dover approfittare di un'occasione irripetibile per cercare di vincere una guerra ormai inevitabile contro il gigante americano.
Ma cadde solo nella trappola...

Come e' cambiata l'America dopo Pearl Harbor

Prima del fatidico 7 dicembre 1941, l'ottanta per cento della popolazione americana (sondaggio realizzato in America nel settembre 1940) era contraria a mandare i propri figli a morire per una guerra lontana e il signor Roosevelt, proprio come il signor Wilson, venne eletto presidente grazie alla promessa che non avrebbe mai trascinato la nazione in un conflitto. Ecco infatti cosa dichiaro' pubblicamente ai suoi elettori ''....e mentro sto parlando a voi, madri e padri, vi do un'altra assicurazione. L'ho gia' detto altre volte, ma lo ripetero' all'infinito. I vostri ragazzi non verranno mandati a combattere nessuna guerra straniera...''.
Ma nonostante queste dichiarazioni d'intenti volte solo ad accattivarsi il consenso di un'America pacifista, il procurato attacco giapponese e il conseguente bagno di sangue di Pearl Harbor provocarono un'ondata emotiva tale che l'opinione pubblica americana muto' repentinamente atteggiamento, optando, come cinicamente previsto, a favore dell'intervento militare. In sostanza, senza un episodio come quello di Pearl Harbor l'amministrazione americana non avrebbe mai potuto trascinare il Paese in guerra e il presidente Roosevelt avrebbe dovuto 'suo malgrado' mantenere le promesse fatte alla nazione.

Il piano McCollum

Grazie al Freedom of Information Act promosso dal parlamentare USA John Moss, molti ricercatori indipendenti hanno potuto avere accesso a uno straordinario numero di documenti sulla guerra del Pacifico. Dallo studio accurato di questi e' poi emersa tutta la sconcertante verita'; si viene cosi a sapere che gia' il 7 ottobre del 1940 nel quartier generale della Marina di Washington circolo' un bollettino destinato a compromettere per sempre l'amministrazione Roosevelt nella premeditazione della guerra. Il dispaccio proveniva dall'ufficio dei servizi informativi ed era indirizzato a due dei piu' fidati consiglieri del presidente, i capitani della Marina Walter S.Anderson e Dudley W. Knox.
Al suo interno recava la sottoscrizione in calce del capitano di corvetta Arthur H. McCollum, un militare esperto dei costumi del 'Sol Levante'. Quest'ultimo infatti aveva trascorso diversi anni in Giappone e ne conosceva perfettamente la cultura, si poneva quindi come l'uomo adatto per studiare una strategia di provocazione. McCollum elaboro' cosi' un piano che prevedeva otto diverse modalita' d'azione per ingaggiare una guerra con il Giappone.
Il documento si componeva di cinque pagine e in esso si faceva esplicito riferimento alla creazione di quelle condizioni che avrebbero costretto i giapponesi a una reazione armata contro gli USA. Una volta che questa si fosse verificata, la nazione americana si sarebbe ritrovata automaticamente invischiata nell'intero conflitto mondiale. Proprio cio' che volevano gli oscuri signori della guerra in doppiopetto e bombetta. La stipula del famoso patto tripartito (siglato a Berlino il 27 settembre 1940), garantiva infatti alle forze dell'Asse (Germania, Italia, Giappone) mutuo soccorso reciproco durante tutto il conflitto.
Le operazioni da seguire per raggiungere questo obiettivo sono qui di seguito sinteticamente elencate :
1-Accordarsi con la Gran Bretagna per l'utilizzo delle basi inglesi nel Pacifico, soprattutto Singapore
2-Accordarsi con l'Olanda per utilizzare le attrezzature della base e ottenere provviste nelle Indie orientali olandesi (l'attuale Indonesia).
3-Fornire tutto l'aiuto possibile al governo cinese di Chang Kai Shek
4-Inviare in Oriente, nelle Filippine o a Singapore, una divisione di incrociatori pesanti a lungo raggio
5-Spostare le due divisioni di sottomarini in Oriente
6-Tenere la flotta principale degli Stati Uniti nei pressi delle isole Hawaii
7-Insistere con gli olandesi affinche' rifiutassero di garantire al Giappone le richieste per concessioni economiche non dovute, soprattutto riguardo al petrolio
8-Dichiarare l'embargo per tutti i commerci con il Giappone, parallelamente all'embargo dell'Impero Britannico
Il bollettino McCollum delle otto azioni e' stato scoperto da Robert B. Stinnett il 24 gennaio 1995 nella scatola n. 6 di una speciale raccolta della Marina degli Stati Uniti, RG 38, Modern Military Record Branch degli Archives II.

Le altre prove del complotto

Cio' premesso, la versione ufficiale ha escluso comunque qualsiasi tipo di coinvolgimento del presidente Roosevelt in un complotto contro le nazioni. Una conclusione 'politica' che pero' non trova alcun fondamento nella storia. Roosevelt venne infatti complessivamente informato del 'pericolo' di un imminente attacco giapponese da almeno ben otto fonti diverse. Inoltre il 27 e 28 novembre 1941 gli alti ufficiali americani ricevettero un ordine che la dice lunga sulle vere intenzioni del governo Roosevelt : '
 Gli Stati Uniti desiderano che il Giappone compia il primo atto diretto''. Un comunicato che, stando alla testimonianza del ministro della Guerra Henry L. Stimson, venne emanato direttamente da Roosevelt (anche se in realta', come verra' chiarito in seguito, Stimson cerco' solo di scaricare tutti i dubbi e le ombre di cospirazione sul presidente).
Eclatante a tal proposito anche il messaggio scritto al Segretario di Stato Cordell Hull dall'ambasciatore americano a Tokyo Joseph Grew il 27 gennaio 1941. Nella riservatissima missiva che Hull si affretto' a distribuire ai servizi informativi (e quindi anche direttamente al presidente) si leggeva infatti a chiare lettere che in caso di guerra Pearl Harbor sarebbe stato il primo bersaglio.
Ma ecco cosa affermava esattamente il testo del cablogramma in questione: ''Un collega peruviano ha rivelato a un membro del mio staff di aver sentito da diverse fonti, compresa una fonte
giapponese, che le forze militari giapponesi hanno progettato, in caso di problemi con gli Stati Uniti, di tentare un attaccoa sorpresa su Pearl Harbor impiegando tutte le strutture militari a loro
disposizione. Ha aggiunto inoltre che, sebbene il piano possa sembrare una fantasia, il fatto che lo abbia sentito da piu' parti lo ha indotto a passare l'informazione''.
E se, come anticipato, l'intelligence USA era in grado di decriptare i messaggi in codice giapponesi gia' molto tempo prima di Pearl Harbor, il presidente deve necessariamente aver conosciuto con largo anticipo le modalita' con cui sarebbe avvenuto l'attacco a 'sorpresa' giapponese. Al contrario, i comandanti del contigente americano direttamente interessato, e cioe' l'ammiraglio Husband Kimmel e il tenente generale Walter Short, vennero tenuti completamente all'oscuro di quanto stava realmente accadendo, onde evitare che potessero adottare le opportune contromisure (come per esempio richiedere uno spostamento della flotta in una zona piu' sicura).
Il giorno dell'attacco nella base di Pearl Harbor non era stato neppure proclamato lo stato d'allerta e le perdite umane furono spaventose. Si verifico' cosi' proprio quella strage degli innocenti che serviva all'amministrazione americana per mobilitare l'indignazione del popolo americano. Il bollettino di guerra fu straziante, sette navi da guerra affondate all'ancora, 2273 morti (tra civili e militari) e 1119 feriti.
Quando vennero aperte le prime indagini nella commissione d'inchiesta del 1946, fu esclusa ufficialmente qualsiasi responsabilita' diretta di Roosevelt, sulla base dell'assunto che il presidente non fosse mai venuto a conoscenza del piano McCollum. Tuttavia esiste ormai un castello di prove che dimostra l'esatto opposto. E per fare maggiore chiarezza, basti dire che le perizie scientifiche svolte sul famoso protocollo hanno accertato la presenza delle sue impronte digitali su ognuna delle cinque pagine del piano. In un processo 'normale' tale materiale probatorio sarebbe stato sufficiente a far condannare chiunque oltre ogni ragionevole dubbio. Roosevelt peraltro ordino' di spostare buona parte della flotta USA alle Hawaii proprio il giorno successivo alla divulgazione del suddetto bollettino e quindi in completa ottemperanza al piano McCollum. Tale disposizione della Casa Bianca infatti non poteva essere connessa ad alcun' altra strategia militare razionale se non quella della provocazione.

Le proteste degli alti ufficiali.

Il trasferimento di preziose unita' navali americane nelle acque del Pacifico risulto' quindi talmente incomprensibile agli alti ufficiali di marina che prima di essere accettato dovette scontrarsi con le animose proteste dell'ammiraglio Richardson qui di seguito riportate testualmente : ''Signor presidente, gli ufficiali piu' anziani della Marina non hanno fiducia nella guida civile di questo paese...''. Richardson dimostro' risolutamente tutto il proprio disappunto, in quanto, da buon ufficiale di marina, sapeva bene che stanziare la flotta nelle acque delle Hawaii sarebbe stato interpretato dal comando giapponese come un chiaro atto di ostilita', o meglio come i preparativi per un'aggressione. Proprio cio' che Richardson per lealta' al suo Paese avrebbe voluto evitare. Il documento programmatico di McCollum del resto non lasciava dubbi di sorta circa le sue reali finalita' provocatorie. E in particolar modo alla lettera D, dove contemplava addirittura l'invio di navi da guerra americane nelle acque territoriali giapponesi o appena fuori di esse.
Durante i riservatissimi briefing militari che si tennero alla Casa Bianca, Roosevelt si dimostro' irremovibile sulla necessita' di porre in atto simili azioni. Non accetto' mai alcuna obiezione o variazione del piano. E, dopo avere programmato gli sconfinamenti della flotta americana sotto l'appellativo di 'missioni a sorpresa', dichiaro' espressamente : ''Voglio semplicemente che sbuchino qua e la' e che i giapponesi continuino a chiedersene la ragione....''. Affermazioni queste che incontrarono anche le obiezioni degli altri alti ufficiali.L'ammiraglio Husband Kimmel, per esempio, quando venne posto di fronte all'ordine di condurre 'missioni a sorpresa' per provocare i giapponesi si lascio' scappare la seguente affermazione : ''E' una mossa sconsiderata e compierla portera' alla guerra''. Ma quando l'ammiraglio Kimmel si rese conto che Roosevelt non aveva alcuna intenzione di tornare sui propri passi, preferi' scendere a compromessi e offir' la sua collaborazione all'unica condizione di venire tempestivamente informato delle contromosse giapponesi. Il ''dietro-front'' di Kimmel venne quindi premiato con una promozione al grado di ammiraglio e con la nomina di comandante in capo della flotta del Pacifico.
L'ammiraglio Richardson invece, che mantenne coraggiosamente la sua posizione, venne rimosso il 1 febbraio 1941 durante una importante riorganizzazione della Marina. Roosevelt ordino' infatti la suddivisione delle forze navali in due contingenti distinti, una flotta per l'Atlantico e l'altra per il Pacifico, un escamotage che gli consenti' di liberarsi agevolmente degli ufficiali non allineati ai suoi programmi e di preparsi nello stesso tempo ad affrontare un conflitto allargato alla Germania.
La registrazione degli ordini emanati direttamente da Roosevelt nel periodo a cavallo tra marzo e luglio 1941 dimostra ancora piu' dettagliatamente quanto egli fosse realmente immischiato nel piano McCollum. Il presidentem diede disposizioni di sua iniziativa e persino contro il parere dei suoi piu' alti ufficiali per violare reiteratamente il diritto internazionale. Vennero quindi dispiegati gruppi navali militari operativi in pieno assetto di guerra al confine delle acque territoriali giapponesi, allo scopo di compiere tre 'missioni a sorpresa'.
Altri indizi inquietanti riguardo un diretto coinvolgimento del presidente in una cospirazione provengono dal modo in cui vennero organizzati i servizi informativi. Le traduzioni dei messaggi in codice giapponese, per esempio, dovevano pervenire direttamente nelle sue mani o in quelle di soggetti da lui autorizzati. Tutte le intercettazioni militari e diplomatiche giapponesi gia' decodificate arrivarono quindi alla casa bianca bypassando l'ammiraglio Kimmel, il comandante in capo della flotta nel Pacifico. In questo modo venne garantita la massima segretezza possibile sulle reazioni di Yamamoto alle provocazioni americane, persino nei confronti dello stesso Stato Maggiore americano. E appena le 'missioni a sopresa' ebbero inizio, le navi da guerra americane cominciarono a scorazzare intorno alle acque territoriali giapponesi arrivando a insidiare perfino lo stretto di Bungo, ovvero l'accesso principale al Mar del Giappone. Ne scaturi' una crisi diplomatica che culmino' con le proteste ufficiali del Ministero della Marina giapponese. La lettera, che venne consegnata all'ambasciatore Grew di Tokyo, denunciava quanto segue : ''Nella notte del 31 luglio 1941, le unita' della flotta giapponese ancorate nella Baia di Sukumo (stretto di Bungo) hanno captato il suono di eliche che si avvicinava da est. I cacciatorpedienieri della Marina giapponese hanno avvistato due incrociatori che sono scomparsi in direzione sud dietro la cortina di fumo accesa dopo che gli era stato intimato il chi va la'....Gli ufficiali della Marina ritengono che le imbarcazioni fossero incrociatori degli Stati Uniti''.

L'ombra dei banchieri dietro la programmazione della guerra

L'amministrazione americana non e' mai stata il vero attore delle guerre piu' recenti, ma solo una pallida comparsa, il comodo soggetto pubblico su cui riversare tutte le colpe. Le reali motivazioni che spinsero il presidente Roosevelt a condurre il popolo americano in guerra portano Roosevelt a condurre il popolo americano in guerra portano inequivocabilmente ad alcuni dei retroscena meno divulgati del secondo conflitto mondiale. Ecco per esempio cosa e' clamorasamente 'sfuggito' agli storici della versione ufficiale : nell'estate del 1940 (prima dell'emanazione del protocollo McCollum), Roosevelt elaboro' un piano di politica estera volto a isolare economicamente il Giappone e le forze dell'Asse con una serie di embarghi. Ma la circostanza quantomeno anomale e' che la Casa Bianca stava operando al contempo con riservatezza per garantire a questi stessi Paesi nemici la scorta di risorse energetiche a loro necessarie per intraprendere una lunga guerra proprio contro gli Stati Uniti e i suoi alleati.
Roosevelt scelse di dare corso alle vere provocazioni (del protocollo McCollum) solo quando il Giappone venne ritenuto in grado di sostenere il conflitto. Pertanto i giapponesi ricevettero tutto
l'approvvigionamento di materie prime (in particolare il petrolio) di cui avevano bisogno persino durante il proclamato embargo. Nei mesi di luglio e ottobre del 1940, in pieno regime di apparente isolamento economico del Giappone, il Call Bullettin di San Francesco fotografo' degli operai sul molo del porto cittadino mentre stavano tranquillamente provvedendo allo stoccaggio di numerosi container nelle stive di due navi da trasporto nipponiche. Si trattava della Tasukawa Maru e della Bordeau Maru; entrambe vennero caricate con ingenti quantita' di quel materiale ferroso di cui aveva fortemente bisogno l'industria pesante giapponese, un Paese ritenuto ufficialmente ostile. Una volta terminate le operazioni di carico, il naviglio prese il largo e fece rotta verso la madrepatria. Ma non si tratto' solo di un caso isolato, perche' la scena era destinata a ripetersi in modo quasi surreale per tutto il 1940 e il 1941, persino dopo lo scoppio' del conflitto.

La vicenda in questione non era certo sfuggita ai servizi segreti americani, che annotarono tutti gli spostamenti delle navi da trasporto giapponesi.

Fonte :
Rivelazioni non autorizzate di Marco Pizzuti

fonte: http://nomassoneriamacerata.blogspot.it/


martedì 20 giugno 2017

in Italia quella dei migranti ormai è un'industria. E vale oltre 4 miliardi


Massimo rispetto e ammirazione per coloro i quali, ogni giorno, si dedicano corpo e anima al soccorso e all'accoglienza dei migranti, ma non bisogna dimenticare che anche la solidarietà spesso può scivolare verso il mero e volgare interesse, a scapito degli individui stessi che ne avrebbero un estremo bisogno. Guardiamo ai fatti, lasciamo per un attimo da parte luoghi comuni, reazioni emotive e cieco buonismo, potrebbe essere d'aiuto sia a noi che a loro..
Catherine


di Enrico Verga

Chi è troppo sensibile è pregato di non leggere oltre. Non è mia intenzione discutere aspetti sociali o umani. Ho voluto mappare lo scenario migranti da un punto di vista esclusivamente economico. Cifre che dipingono una situazione in cui, a mio modesto avviso, non si parla più di un’emergenza, ma di un settore nascente dell’economia che può tranquillamente definire un nuovo tipo di industria: l’industria dei migranti.

Definizione di industria (dalla Garzanti): attività umana diretta alla produzione di beni e servizi, anche nelle sue forme più semplici e non organizzate.

Ora, partiamo dai tipi di migranti...



Migranti di guerra
Un evento che produce migranti di guerra ha un costo in termini di risorse impiegate estremamente elevato. Solo per dare un’idea il singolo bombardamento da parte degli Usa della base militare siriana di Shayrat è costato circa 100 milioni di dollari (la voce principale del bombardamento sono i costi dei Tomahawk, missili da crociera).

Meno costosa appare essere una guerra civile dove, molto spesso, l’utilizzo di armi è ristretto a quelle leggere. In tal senso un’analisi della World Bank offre alcuni numeri su cui riflettere.

Migranti socio economici

I migranti sociali o economici, ipotizzando che non siano prodotti da un ex conflitto, possono essere creati con uno scenario di minor intensità (anche come risorse utilizzate) ma che può generarsi in un periodo medio lungo: crisi economiche, cambiamento di governo, estremismo etnico o religioso, cambiamenti climatici (siccità, innondazioni etc.). Un’analisi interessante della produzione di migranti economici la potete trovare nella mappa che l’ILO ha di recente messo a disposizione.

Arrivi in Italia: 505.378 unità (2014-2016)

I migranti che interessano direttamente l’Italia sono per lo più prodotti in Africa.
Dei tre corridoi indicati dallo IOM quello mediterraneo centrale (che interessa la rotta Libia-Italia) è il più attivo. Dal gennaio 2014 a dicembre 2016 il ministero dell’interno traccia 505.378 migranti sbarcati in Italia. A questi si aggiungono quelli sbarcati sino a oggi (ultimo aggiornamento 24 maggio 2017 dello IOM)

Se analizziamo il sito del ministero dell’Interno aggiornato notiamo che le richieste di asilo sono drasticamente aumentate negli ultimi anni. I maggiori richiedenti sono di origine africana, per lo più migranti economici.

Costo migranti per l’Italia nel 2017: 4,6 miliardi di euro

“L’impatto complessivo sul bilancio italiano della spesa per migranti, in termini di indebitamento netto e al netto dei contributi dell’Unione europea, è attualmente quantificato in 2,6 miliardi per il 2015, previsto pari a 3,3 miliardi per il 2016 e 3,8 per il 2017, in uno scenario costante, ossia in assenza di un ulteriore acuirsi della crisi. Tale stima tiene conto della spesa per l’accoglienza, per il soccorso in mare e per i riflessi immediati su sanità e istruzione. In particolare, il soccorso in mare vede impegnati oltre ai corpi militari, gli uomini e i mezzi delle Capitanerie di porto e della Guardia di finanza”, spiega il ministero dell’Economia.

Facciamo i conti della serva, in 3 anni abbiamo: 2,6 + 3,3 + 3,8 = 9,4 miliardi di euro. Il conteggio di 3,8 miliardi di euro, tuttavia, era una previsione. In data aprile 2017 il ministero rivede i conti e fa due previsioni di spesa (quindi non cifre definitive) già superiori.

Scenario “cauto” (costante) implica una spesa di 4,2 miliardi di euro per tutto il 2017.

Scenario di crescita (sulla base degli storici direi il più plausibile) 4,6 miliardi di euro. (fonte: pagina 45 del Programma di Stabilità).


Alcuni paragoni per dare l’idea delle cifre (usando la stima costante)

L’ultima finanziaria, quella approvata per il 2017, è di circa 27 miliardi. Allo stato attuale delle due stime (costante e in crescita) l’impatto negativo sul Pil sarà tra 0,25% e 0,27%.

Pensioni

1,9 miliardi di euro (nel 2017 per quattordicesime, pensioni basse e Ape) stanziate nella finanziaria vs 4,2 miliardi per migranti nel 2017 (l’industria dei migranti riceve oltre il doppio).

Piano Casa

4,5 miliardi per il piano casa vs 4,2 miliardi per i migranti (un po’ di più per il piano casa che copre tutti i cittadini italiani interessati)

Dissesto idrogeologico

7 miliardi (ma in 7 anni, il che significa 1 miliardo l’anno) vs 4,2 miliardi per i migranti (all’industria dei migranti vanno 4 volte tanto)

La società civile ci guadagna?

Secondo un’analisi approfondita del Fondo Monetario internazionale (pagina 8 del documento) i costi per l’asilo dei migranti hanno un impatto negativo dello 0,24% (dati del 2016) sul nostro Prodotto Interno Lordo (Pil).

Sul medio-lungo periodo il Fondo Monetario internazionale cita a pagina 14 un possibile calo del Pil superiore allo 0,40 %.

La Lady Pesc (la signora Mogherini, ex ministro degli esteri) suggerisce che le “economie europee hanno bisogno dei migranti”.

Non mi appare del tutto chiaro da dove provengano le fonti che suggeriscano alla Mogherini che essi siano una necessità. Sulla base dei dati IOM una buona parte dei migranti sono di origine umile. Molti con un livello di educazione poco adatto a integrarsi nella società civile europea che sempre più tende a valorizzare una occupazione post industriale.

La stessa Germania ha deciso una sorta di “selezione all’ingresso” solo per migranti adatti ad integrarsi, che possono portare un vero valore all’economia nazionale.

Remittance: 15.359.000.000 dollari

I migranti, se trovano lavoro in Italia, sembra che tendano a risparmiare. Ottimo per loro, discutibile per il benessere del sistema economico italiano. Le remittance sono i soldi che i migranti guadagnano qui, risparmiano e spediscono a casa (alle loro famiglie).

Il Pew riporta (al 31 agosto, anno 2016) una cifra di circa 15 miliardi di dollari usciti dall’Italia diretti in varie nazioni (la mappa dinamica che potete visualizzare qui indica le destinazioni). In pratica i migranti che lavorano sono degli ottimi risparmiatori, ma i loro risparmi (o una parte di essi) vanno a finanziare la crescita delle loro nazioni di origine.

Raccolta fondi delle No Profit

L’industria dei migranti in termini di raccolta (donazioni, lasciti, etc) è un settore in crescita. Ho dialogato con chi offre consulenze e servizi di raccolta fondi a ONG. Aragorn è un azienda profit che supporta numerose organizzazioni nella raccolta di fondi per scopi benefici (nessuna che opera nell’industria dei migranti). Data l’esperienza decennale del suo gruppo, e la loro trasparenza, ho pensato di intervistarli per offrire una visione chiara del sistema di raccolta faccia a faccia (di seguito F2F)

Nell’ambito della raccolta fondi il confronto F2F è lo strumento di raccolta più efficiente. Per intenderci i ragazzi o ragazze che vi fermano per strada, con una pettorina della organizzazione per cui raccolgono soldi.

L’Istituto italiano donazioni, che ha tra i suoi soci un numero piuttosto elevato di Organizzazioni No Profit (ONP), dipinge uno scenario (dati 2015) di crescita nella raccolta F2F che si attesta al 15% del totale raccolto da ogni ONP.

Negli anni vi sono stati duri attacchi a questo sistema di raccolta etichettato dagli stessi “volontari” come iniquo Quali sono le tipologie di contratto lavorativo che tutelano i vostri dialogatori?

“Il personale F2F lavora con contratti di lavoro che prevedono un fisso netto mensile a cui va aggiunta una provvigione basata sui RID sottoscritti. Legolas rimborsa al personale ogni spesa connessa al lavoro (spostamenti, viaggi, spese telefoniche…).”

È corretto chiamarli volontari?

“Il personale F2F è pagato, quindi non è corretto definirlo volontario. Per definire questo profilo professionale, i termine corretto è dialogatore, poiché si tratta di persone selezionate e formate per instaurare un dialogo diretto con i cittadini incontrati per strada o presso gli stand allestiti in piazze, centri commerciali, teatri, etc”.

In passato vi sono state critiche allo “sfruttamento” dei dialogatori di strada, cosa ne pensa?

“Legolas e le ONP per cui lavora sottoscrivono un codice etico adottato dal personale F2F. Tale codice etico prevede la messa in pratica delle ‘buone prassi’ cioè, in particolare, la veicolazione di tutte le informazioni necessarie senza alcuna omissione ai potenziali donatori quali: la periodicità della donazione, l’importo e la frequenza, la modalità di rinnovo automatico. Solo una puntualizzazione: Legolas lavora sul F2F da solo tre anni a differenza delle attività di Aragorn che, come le dicevo, lavora da 23 anni nell’ambito della raccolta fondi e della comunicazione per il no profit. Esistono in Italia altre realtà molto più grosse ma soprattutto che lavorano da molto più tempo, e direi esclusiva, nel F2F”, conclude Stefano Sanfilippo, Ceo di Aragorn.

Sullo stesso tema (F2F) ho dialogato con un Organizzazione No Profit (Medici senza frontiere) che è attiva anche in ambito migrazione.

Chi chiede soldi (lavorando per voi) per strada è un professionista (pagato), non un volontario (quindi non pagato)?

“Il personale che svolge l’attività di face to face non è composto da volontari ma da professionisti e per svolgere al meglio l’attività offriamo loro formazione continua. I dialogatori infatti informano il pubblico sui nostri progetti e propongono di diventare sostenitori regolari. Siamo un’organizzazione indipendente, anche dal punto di vista finanziario, e grazie a questo sostegno possiamo garantire cure mediche e assistenza a milioni di persone. Collaboriamo con poche e selezionate agenzie esterne ma fondamentalmente abbiamo un programma gestito internamente e ci occupiamo direttamente di selezionare e formare i dialogatori. Ognuno stipula un contratto con noi e percepisce una retribuzione che si basa su fisso e variabile. Riguardo ai costi, in riferimento al bilancio: meno del 18% dei fondi raccolti dalla nostra organizzazione viene utilizzato ogni anno per assicurare la copertura di costi di struttura, essenziali anche alla raccolta fondi; oltre l’82% va a finanziare le attività istituzionali di MSF, innanzi tutto quindi i progetti sul terreno in oltre 70 paesi del mondo”, dice a Econopoly il direttore generale di Medici senza Frontiere, Gabriele Eminente.

Una posizione la offre anche Unicef Italia.

Come funziona il vostro sistema di F2F?


“Pur essendo selezionati e monitorati rispetto alla loro motivazione verso la causa dell’UNICEF, i ragazzi non sono volontari ma personale retribuito, comunemente chiamati nel settore dialogatori. Le società esterne di cui attualmente ci avvaliamo per la raccolta fondi face to face, sono responsabili del rapporto di lavoro con i dialogatori. Le scelte sul modello retributivo spettano alle società, che si muovono in un mercato del lavoro concorrenziale, mentre per quanto riguarda la parte contrattuale il Comitato Italiano per l’UNICEF Onlus richiede per contratto alle società di rispettare la vigente normativa in tema di diritto del lavoro e previdenziale, in modo che siano applicabili tutti i modelli contrattuali consentiti dalla legge e che non sia impiegato personale minorenne nello svolgimento dell’attività. Nel nostro caso il compenso da loro percepito è formato da una parte fissa e una variabile, proporzionale agli obiettivi di raccolta fondi raggiunti attraverso l’impegno e la qualità del lavoro svolto”

Ritiene che la formazione di questi operatori di strada sia, generalmente parlando, svolta in modo che vi siano chiari adempimenti etici nell’offerta del prodotto/servizio da parte loro?

“La formazione dei dialogatori è garantita come servizio dalle società, previo adeguato briefing e costanti processi di controllo qualità da parte del nostro staff, sia in sede di dialogo con il pubblico che con il confronto diretto con i nostri nuovi sostenitori. Abbiamo uno strettissimo controllo di qualità, composto anche da ‘mistery shopping’ (cioè controlli a sorpresa e monitoraggio del nostro staff) e abbiamo sospeso sia dialogatori sia società che non rispettavano gli standard qualitativi ed etici richiesti”.

Per riassumere, chi lavora per la raccolta fondi è un lavoratore/professionista, non è un volontario. Oltre al fisso hanno una provvigione quindi più si raccoglie più si guadagna (in percentuale sul raccolto).

Le cifre delle Ong: Medici Senza Frontiere

Alle cifre già discusse, stanziate dal governo italiano, si aggiungono quelle delle ONG. Come organizzazione di riferimento ho scelto Medici senza Frontiere. Prima di tutto una premessa in merito ai fondi utilizzati. “Tutte le donazioni ricevute da MSF in Italia, e più del 96% a livello internazionale, provengono da donazioni di privati. Da giugno 2016, MSF non accetta finanziamenti UE per protesta contro le politiche migratorie europee”, mi spiegano da MSF.


Alcuni numeri riguardanti questa organizzazione.

MSF è in mare con due navi, la Prudence e la Aquarius, quest’ultima in collaborazione con SOS Mediterranée. Costi Prudence (anno 2017): 9.000 euro al giorno – 270.000 euro al mese. Costi Aquarius (anno 2017, divisi a metà con SOS Med): 11.000 euro al giorno – 330.000 euro al mese. I costi delle due navi comprendono affitto della nave, cure mediche, farmaci, cibo, beni di prima necessità come abiti, coperte, etc., carburante, staff, equipaggio.Staff MSF impegnato su SAR (operazioni di salvataggio): 33 persone (13 persone sulla Prudence, 9 su Aquarius, 11 persone a terra – porto di Catania)

Totale persone soccorse da MSF dal 2015: oltre 65.800. Totale 2017: oltre 12.000. Nel 2016 (anno fiscale 2014), il 5×1000 ha rappresentato il 17% dei proventi dell’organizzazione (9.774.726 euro, 240.495 contribuenti). Nel 2016, budget per tutte le operazioni di ricerca e soccorso (SAR) nel Mediterraneo (con tre navi): circa 10,4 milioni di cui 1,5 milioni (14%) da fondi 5×1000.

Il budget totale di SAR su totale spese di tutti i progetti di MSF a livello globale è circa 0,9%. Nel 2016 per progetti di MSF sulla migrazione in Italia (escluso SAR): 3,5 milioni, 0,3% su totale delle spese dei progetti a livello globale. Il totale delle spese SAR + progetti migrazione in Italia = 13,9 milioni, pari all’1,2% sul totale dei progetti a livello globale.

Vi sono 8 differenti organizzazioni operanti nel Mediterraneo nella ricerca e soccorso, che in totale nel 2016 hanno effettuato il 28% dei soccorsi. Oltre a queste sono attive in mare le navi di Frontex, quelle della nostra Marina, etc.

Unicef Italia

Due chiacchere con Unicef, che è attiva in Italia nella raccolta fondi e da quest’anno anche nell’industria dei migranti (tra i migranti vi sono molti minorenni).

Qual è la percentuale di migranti originati da zone di guerra (profughi di guerra) e di migranti sociali o economici? “

“Non abbiamo disponibile una distinzione così netta. Nel 2016 sono sbarcate in Italia 181.436 persone. Nello stesso anno, sono state presentate 123.600 richieste d’asilo, di queste ne sono state esaminate 91.102: al 40% è stata concessa una qualche forma di protezione. Migranti: 43.245 sbarcati nel 2017, +38% rispetto al 2016. Dopo il boom di sbarchi nell’ultimo weekend (oltre seimila), salgono a 43.245 gli arrivi di migranti nel 2017, il 38,54% in più rispetto al 2016, che alla fine risulta l’anno record, con 181mila stranieri giunti via mare. Nigeriani (5.216), bengalesi (4.645), guineani (4.206) e ivoriani (3.942) le nazionalità più rappresentate dei migranti arrivati quest’anno. Si contano anche 5.551 minori non accompagnati”.

Qual è la percentuale demografica di donne, uomini e minori?

“In Europa, dei 44.000 rifugiati e migranti sbarcati da gennaio 2017 attraversando il Mar Mediterraneo, 11.300 sono bambini o adolescenti (circa il 25,5%). Nel 2016 sono state 362.300 le persone giunte in Europa, di cui oltre 94.200 sotto i 18 anni (26%). Delle 93.620 persone che hanno presentato richiesta d’asilo nel 2017, 25.290 sono bambini sotto i 18 anni (27%). In Italia, le persone sbarcate nel 2016 sono state 181.436, di cui il 16% bambini e adolescenti: 9 su 10 non accompagnati. Nello stesso anno, sono state presentate 123.600 richieste d’asilo in Italia, di cui 105.006 uomini (85%) e 18.594 donne (15%): di questi, 11.623 sono minori (9,5%), 5.984 non accompagnati. Nei primi tre mesi del 2017 sono state presentate 37.915 richieste d’asilo in Italia, di cui 32.180 uomini (circa l’85%), 5.735 donne (circa il 15%): di questi, 4.489 sono minori (11,8%), 2.254 non accompagnati”, conclude Paolo Rozera, direttore Unicef Italia.

Il punto di vista della politica

Per fare il punto su cosa ne pensa la politica ho dialogato con Guglielmo Picchi. Membro dell’assemblea parlamentare dell’OSCE (Oscepa), presidente del comitato sui migranti, in seno alla stessa organizzazione.

“I numeri che ha menzionato sono difficili da immaginare, specialmente se messi a confronto con quello che il governo italiano ha stanziato per progetti di interesse nazionale: le pensioni e le case per l’intera popolazione italiana. Negli ultimi mesi, come presidente della commissione migranti dell’Oscepa, ho visitato numerosi insediamenti temporanei in Grecia, Turchia, sulla rotta di terra (ex Jugoslavia, Bulgaria, Romania etc..). Le condizioni in quei centri sono preoccupanti. Tuttavia il problema, a mio avviso, deve essere risolto alla radice. I finanziamenti alla Turchia per chiudere le frontiere sono una soluzione temporanea e onerosa, imposta da una Unione Europea che, dimentica a volte degli sforzi dell’Italia, non trovava molto comodo avere un torrente di migranti che arrivavano direttamente in centro Europa. Il mio intento, all’Oscepa e come membro della commissione al Ministero esteri, è di poter strutturare un piano di maggior supporto alle nazioni da cui è originato il fenomeno migranti. Uno sforzo sicuramente importante, ma che può arginare un processo che, detto sinceramente, l’Italia non può permettersi di affrontare ancora per molto tempo“, conclude Picchi.

Soros e i diritti umani: 1.500.000 nel 2016


Spesso si tira in ballo la Open Society Foundation di George Soros. Le accuse mosse alla OSF del celebre finanziere sono tra le più fantasiose. Li si accusa di sovvenzionare le migrazioni in Italia e Europa, di voler sconvolgere il tessuto sociale europeo, etc. Dato che anche in questo caso vi sono soldi in ballo ho pensato di chiedere direttamente a loro.


“Le operazioni di SAR sono importanti e salvano vite umane, ma esulano dallo scopo del nostro approccio, focalizzato sui diritti umani. Non finanziamo rifugiati e migranti né gruppi che li conducono in Italia. Semplicemente riconosciamo che queste persone spesso subiscono orribili violazioni dei diritti umani durante il percorso per emigrare e la ricerca dello stesso. Una volta in Italia, essi sono spesso abbandonati dallo Stato. Per questo motivo, nel 2016 abbiamo disposto 732.840 dollari per le organizzazioni che, in Italia, denunciano abusi e offrono cure mediche, assistenza legale e supporto sociale a queste persone che si trovano in un momento di vulnerabilità nella loro vita. Le accuse dirette o indirette nei confronti della OSF di incoraggiare queste persone a emigrare sono false. Esse ricadono nella stessa categoria delle menzogne, motivate da ragioni politiche, secondo le quali finanziamo le persone per protestare e organizzare rivoluzioni. Queste menzogne sono parte dell’attuale clima di incoraggiamento alla diffusione di notizie false attraverso i social media in un contesto di campagna elettorale, proteste o lotta al potere”, mi spiega il portavoce della Open Society Foundation.

Considerando le enormi cifre menzionate in precedenza, un investimento totale, spalmato su differenti Ong (nessuna delle quali ha usato i soldi per progetti legati a sbarchi e migranti), di meno di 1 milione di euro appare ben poca cosa. O meglio, sicuramente denaro utile per supportare i diritti umani, ma di certo non una cifra che possa sovvertire l’ordine italiano o europeo (qui il link per il prospetto di grant).

Miliardi di euro, solo in Italia, investiti, spesi, guadagnati da tutti coloro che operano, pur nel massimo della loro efficienza e onestà, per affrontare ogni giorno il fenomeno dei migranti. Con un trend in crescita, a rischio di sembrare cinico, i migranti non sono più un’emergenza. Sono un’industria strutturata, vitale e in continua crescita che offre prospettive di guadagni e carriera.

Fonte: www.econopoly.ilsole24ore.com

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it/

Si può anche leggere:
Il business dell'emigrazione clandestina

giovedì 15 giugno 2017

la strega dell'aceto


Il XVI secolo fu periodo di grandi cambiamenti in molti settori. Questo avvenne anche all’interno dei tribunali dell’Inquisizione si assistette al passaggio della gestione del processo contro l’accusato al tribunale secolare, evento che fece la fortuna di numerosi giudici facinorosi che cercavano di emergere ad ogni costo. 
Mentre il giudice prima era spettatore passivo dell’applicazione della giustizia di Dio, ora divenne inquisitore attivo, ricercatore della prova di colpevolezza, con il supporto e il consiglio dei frati, abili assistenti nel procurare con ogni strumento disponibile il massimo dolore.
Il vantaggio di questa collaborazione fu reciproco.
In questo scenario che si svolse la vicenda che vi vorrei raccontare.
Fine del 1700. Siamo in Sicilia, la terra dei fichi d’india, dove cielo e mare si confondono all’orizzonte, dove il sole brucia la pelle e la terra che, generosa, non risparmia comunque i suoi frutti.
Palermo come molte altre città italiane era divisa fra poveri straccioni analfabeti che sopravvivevano nelle strade tra mille difficoltà, e ricchi eleganti, che spendevano le loro giornate tra feste lussuose e noiose passeggiate.
In questo tempo Giovanna Bonanno, al secolo la Megera dell’aceto, visse una storia di miseria e solitudine.
Giovanna era una levatrice, brava e preparata. Conosceva bene il suo mestiere per questo era spesso chiamata ad assistere anche donne ricche e potenti, spose o amanti di uomini illustri.
A Giovanna il denaro non bastava mai, per questo, avutane l’occasione, cercò di farne di più ricattando un uomo molto potente di Palermo, a cui nacque, con l’aiuto della levatrice, un figlio illegittimo.
La donna fu arrestata e condotta in prigione. Fu la sua rovina.
Detenuta per 5 anni, ormai in età avanzata, all’uscita dal carcere non aveva più nulla: lavoro, casa, amici, parenti, tutto sparito. L’attendeva la miseria più nera. Anche il suo viso, segnato dalla sofferenza, era quello di una donna brutta e vecchia, con rughe profonde come il suo dolore per essere stata rifiutata dal mondo.
Giovanna era arrabbiata, con tutti.
Era rosa dal tarlo dei soldi, dalla rabbia costante, dalla tristezza profonda.
Il ricordo per la sua vita passata la rendeva ancora più rabbiosa. Era stata sposata, con un uomo buono, che amava molto, ma era rimasta vedova giovane. Tutta questa rabbia aveva fatto emergere il suo lato oscuro, la sua natura malvagia.
Giovanna era anche stata furba: sapeva leggere e aveva avuto la possibilità così di distinguersi dalla massa di poveri analfabeti che popolavano Palermo. Dai libri però prese solo cattivi insegnamenti, che cercò di sfruttare a proprio beneficio. Divenne un’abile fattucchiera, capace di preparare intrugli d’amore per i disperati che a lei si rivolgevano. Ben presto la voce sulla sua abilità si sparse per tutte le strade del quartiere dove abitava e così malocchio, problemi di cuore e di virilità le permisero di sopravvivere per lungo tempo in modo dignitoso. Ma la natura avida di Giovanna non le consentì di stare bene a lungo. I soldi non bastavano mai. Un giorno venne a sapere che poco lontano da casa sua una bambina, per errore, aveva ingerito una specie di aceto usato per uccidere i pidocchi. La piccola era stata molto male, il vomito l’aveva squassata per giorni fra atroci dolori, poi si era lentamente ripresa. I medici avevano a lungo cercato di capire cosa le fosse successo, nessuna traccia sul corpo della bimba.


La Bonanno ebbe un’idea, pensò e ripensò a come usare questo aceto per trarre profitto. Così decise di comprarne una piccola dose, unita a dell’arsenico per fare degli esperimenti sugli animali, per capire come agiva questo intruglio, se era letale e in quanto tempo faceva effetto. Aveva trovato uno strumento di morte invisibile.
Il passo da fattucchiera a Megera fu breve.
Giovanna Bonanno nel 1786 iniziò a compiere i primi omicidi, per soldi ma anche per piacere.
La sua prima cliente fu Angela La Fata, detta Angelica per il suo carattere mite e la sua bellezza. In realtà tanto mite Angelica non era. Si innamorò perdutamente di un tale Giuseppe Bilotta. Perse la testa per lui. Ma La Fata era coniugata da tempo. Che fare? “La vecchia Bonanno ti potrà aiutare ad uccidere tuo marito, usa il veleno”, le disse un’amica. Così la donna si recò dalla Megera, che però non era esperta: l’umo sopravvisse due volte all’avvelenamento, soffrendo le pene dell’inferno. Al terzo tentativo morì dopo giorni di sofferenza, contorcendosi fra atroci dolori. I medici non compresero la causa del male.
Giovanna aveva raggiunto lo scopo, incassati i soldi si chiese subito come trovare altri clienti.
Emanuela Molinari fu la sua seconda acquirente. Moglie infelice del fornaio di quartiere, Ferdinando Lo Piccolo, con due dosi di intruglio fornite dalla Bonanno, la donna divenne una vedova consolabile.
La fama delle Megera crebbe in tutta Palermo e con essa i suoi introiti e la sua soddisfazione nel veder morire di “morta misteriosa” le persone attorno a lei.
Donne e uomini la interpellavano per portare a compimento i propri oscuri progetti.
Tante erano le richieste per Giovanna che la donna si trovò una “procuratrice”, tale Maria Pitarra, che riuscì a portarle anche clienti illustri. L’ultimo fu una certa Rosa Mangano, che avvelenò il marito Francesco Costanzo per fuggire con il giardiniere Emanuele Cascino.
Ma questa volta qualcosa andò storto. Forse nella vicenda giocò un ruolo fondamentale la malafede della Pitarra, desiderosa di prendere il posto di Giovanna.
Il Costanzo era figlio di una vecchia conoscente della Bonanno, che sapeva bene la sua fama. Fu così che la donna, dopo aver fatto un po’ di domande in giro, arrivò al nome della Megera. Con l’inganno si finse un‘acquirente della maligna pozione, ma anziché presentarsi all’incontro sola, andò all’appuntamento accompagnata dalle guardie, che arrestarono Giovanna con ancora le ampolle velenose in mano.
Il processo ebbe inizio alla fine del 1788. Portata nella stanza delle torture, fu rasata e sottoposta al supplizio della corda.
Al dolore la donna non seppe resistere e confessò tutto.
In due anni di attività il numero presunto dei decessi attribuibili all’intruglio inventato dalla Bonanno fu considerevole, ma solo sei furono ricondotti a lei senza dubbio. Nella cella accanto alla sua finì la Pitarra.
L’esecuzione venne fissata per il 30 luglio 1789. Il patibolo fu posizionato ai Quattro Canti o Teatro del Soleuna piazza ottagonale all'incrocio di due grande vie di Palermo. La gente arrivò da tutta la citta per assistere.
Giovanna Bonanno aveva 80 anni il giorno in cui fu giustiziata per impiccagione. Quando la corda le spezzo la carotide, un brivido di terrore si levò dalla folla.
Da questo momento il poi la storia divenne leggenda. Pare che il suo corpo fu profanato, per esorcizzare la paura che il suo spirito malvagio potesse tornare a perseguitare chi era presente. Le furono strappati i denti, i pochi che le rimanevano, e le unghie delle dita e venne fatta a pezzi. Da quel giorno il suo nome divenne uno spauracchio per i bambini disobbedienti.
Poco dopo Maria Pitarra la seguì nello stesso destino.
Leggendo la storia di questa donna mi sono chiesta fino a che punto le vicende che accadono nella vita di ciascuno di noi sono in grado di influenzare in negativo le azioni di chi le sta vivendo. Al posto di Giovanna saremmo diventati tutti assassini seriali? Sono le vicende negative o i fatti violenti a determinare e a far emergere il male che naturalmente alberga in noi? Oppure scegliamo liberamente di dare sfogo alla nostra natura? I moderni studiosi non sono unanimi nel giudizio. Sicuramente molti passi avanti sono stati fatti dal tempo in cui Cesare Lombroso riteneva che la circonferenza del cranio oppure la grandezza dei lobi delle orecchie fossero segni distintivi della malvagità umana.
Oggi Giovanna Bonanno, dalla moderna criminologia, sarebbe definita come un’assassina per profitto, cioè colei che uccide sistematicamente per un tornaconto economico, secondo la classificazione di Kelleher&Kelleher del 1998 sulle donne serial killer.
Al suo tempo su catalogata come Megera e il suo corpo disperso per impedirne il ritorno in vita.

Rosella Reali

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

Bibliografia
Carlo Lucarelli, Massimo Picozzi – SK, storie di ossessione omicida – Oscar Mondadori, 2003

Angelica Artemisia Pedatella – Le donne più malvagie della storia d’Italia – Newton Compton Editori, 2015

Luigi Natoli – La vecchia dell’aceto - Flaccovio Dario, 2014

Kelleher &Kelleher – Murder Most Rare: The Female Serial Killer - 1999

la false flag del golfo del Tonchino

Dalle menzogne del golfo di Tonchino alla guerra del Vietnam


Il mattino del 5 agosto 1964 il presidente Lyndon B. Johnson, con un discorso lungo appena tredici paragrafi letto di fronte al Congresso, scagliò l´America nella bufera del Vietnam. Esordì con queste parole: «Ieri sera ho annunciato al popolo americano che il regime nord vietnamita ha attaccato ancora una volta e deliberatamente navi della marina americana in acque internazionali…». L´attacco, in realtà mai avvenuto, passò poi alla storia come l´incidente del Golfo del Tonchino, ovvero la causa scatenante della Guerra dei Diecimila giorni, la più lunga nella storia degli Stati Uniti. Costò 200 miliardi di dollari ai contribuenti USA, la vita di 58 mila americani e di tre milioni di vietnamiti. Per la gioia delle casse dei poteri forti, il Vietnam venne così martoriato da ben 7 milioni di tonnellate di bombe , circa tre volte tanto la quantità di esplosivo utilizzato durante tutta la Seconda guerra mondiale.
Questa è una storia che l´intelligence di Washington conosce bene e non vuole raccontare. È racchiusa, rigidamente coperta dal segreto, nelle 400 paginette fitte di un fascicolo compilato nel 2001 da Robert Hanyok, storico della National Security Agency (Nsa), l´Agenzia preposta a intercettare le comunicazioni e a decrittare i codici cifrati. È la ricostruzione di una inesorabile catena di errori, di depistaggi, di falsificazioni che come ammesso dall’agente Matthew Aid durante un’intervista al New York Times, ricalca da vicino la mistificazione operata dalla Casa Bianca per vendere all´America e al mondo la guerra all´Iraq.
Ciò che accadde la notte del 4 agosto nel Golfo del Tonchino è rivelato – o piuttosto confermato – da chi ha letto le centinaia di trascrizioni riportate nel fascicolo segreto, intitolato Spartans in Darkness, Spartani nelle tenebre. Non a caso. Quella notte i due cacciatorpedinieri U.S. Maddox e C. Turner Joy erano in missione clandestina per sostenere un´offensiva lanciata in simultanea dalla Marina sud vietnamita e dall´Aeronautica laotiana contro il Vietnam del Nord. Le ombre ingigantivano i fantasmi, il rombo dell´elica perseguitava l´addetto al sonar bersagliato da “freak weather effects”, bizzarre manifestazioni del tempo atmosferico. Nell´incubo troppo reale, i cannonieri della Maddox e della Turner Joy presero a esplodere munizioni nel vuoto: «Sparavano a obiettivi fantasma», raccontava già dieci anni fa James Stockdale, comandante della squadriglia della Navy in volo di scorta sopra le navi. «Io li vedevo bene dall´alto: laggiù non c´era nessuna motosilurante nemica… c´erano soltanto l´acqua color di pece e il fuoco dei cannoni americani».
“L´errore” venne presto riconosciuto, ma – stando a chi ha letto il fascicolo segreto – solerti funzionari si prodigarono con altrettanta rapidità nel coprirlo, nel falsificare i documenti da dare in pasto alla stampa mondiale. Le “prove” di un attacco nord-vietnamita infatti dovevano essere fabbricate con ogni mezzo dall’intelligence al fine di trascinare l’America in guerra. E così quando finalmente trapelò la scandalosa verità fuori dai circuiti dell’informazione ufficiale, il presidente Johnson non fece altro che scaricare tutte le responsabilità della guerra su presunti errori della marina USA.
Quelle famose cannonate sparate a vuoto dalla flotta americana contro obiettivi fantasma regalarono al presidente il pretesto per realizzare un disegno già pronto: intensificare lo scontro aperto con il Vietnam comunista. Due giorni dopo, il 7 agosto, con i voti del Congresso e l’appoggio dell’opinione pubblica americana, Johnson ottenne l´approvazione per un intervento illimitato. Iniziò quindi la campagna dei bombardamenti aerei. La Risoluzione del Tonchino nacque così: per “prevenire ogni aggressione contro l´America…. preservare la pace e la sicurezza internazionale». Espressioni che oggi risuonano familiari.
Da anni gli storici reclamano la pubblicazione di quel fascicolo insabbiato. «Divulgare quei documenti è essenziale al dibattito in corso attorno all´Iraq e alla riforma dell´Intelligence», rompe il silenzio Matthew Aid, ricercatore indipendente in contatto con la Nsa e con la Cia.
Invano: «Il paragone sarebbe troppo sgradevole con l´intelligence manipolata impiegata per giustificare la guerra all´Iraq», ribatte anonimo al New York Times un funzionario dei servizi di sicurezza.
«Noi americani siamo gli ultimi ingenui», avvisava Sidney Schanberg, premio Pulitzer del New York Times, l´eroe di Le urla del silenzio che raccontava al cinema la storia dell´amicizia con l´assistente cambogiano Dith Pran, e l´abbandono dell´America. «Noi vogliamo sempre disperatamente credere che stavolta il governo stia dicendoci la verità».

Fonte :

http://www.altrainformazione.it/wp/lincidente-del-golfo-di-tonchino-e-la-guerra-del-vietnam/

L'escalation della Guerra in Vietnam

Il coinvolgimento degli USA nella guerra contro il Vietnam del nord subi' una rapida escalation nel 1964, a seguito del presunto affondamento di due cacciatorpediniere americane da parte di unita' della marina militare nord vietnamita. L'episodio, passato poi alla storia come l'incidente del Golfo di Tonchino, catalizzo' l'opinione pubblica contro la minaccia proveniente da oriente. Poco dopo questa vicenda, infatti, l'America scese in campo con un intervento armato e lo spiegamento massiccio delle sue truppe.
Tuttavia rimaneva ancora un 'piccolo problema formale' da risolvere, e cioe' che il famoso attacco nordvietnamita tanto sbandierato alle masse dai mass-media controllati dall'elite non era mai avvenuto! Si tratto' solo di un episodio completamente inventato come pretesto per spingere le famiglie americane a mandare i loro ragazzi al fronte.
A tal proposito lo stesso Segretario della Difesa Robert McNamara (in seguito nominato dall'elite presidente della Banca Mondiale) dichiaro' molti anni dopo : ''L'incidente del Golfo di Tonchino fu un errore''. Tardive ammissioni, a cui seguirono quelle di molti altri ufficiali e 'insider' a conoscenza dei fatti. Emerse cosi' la drammatica verita', ovvero che tutta la storia dell'incidente in questione era stata solo una farsa creata a tavolino per manipolare l'opinione pubblica in modo da spingerla ad appoggiare la guerra. La commedia raggiunse il suo culmine nell'ottobre del 1966, periodo in cui il presidente Lindon Johnson dispose molte restrizioni commerciali nei confronti del blocco sovietico, ritenuto ufficialmente colpevole di aver sostenuto lo sforzo bellico nordvietnamita quando in realta' la famiglia Rockfeller stava finanziando l'esercito 'nemico' proprio dai suoi stabilimenti in URSS.

Fonte : Rivelazioni non autorizzate di Marco Pizzuti


fonte: http://nomassoneriamacerata.blogspot.it/