CRISTO MORTO - ANDREA MANTEGNA

venerdì 10 marzo 2017

Thérèse Hargot

la nuova schiavitù della rivoluzione sessuale

La cosa incantevole di questa giovane scrittrice, blogger, terapeuta e insegnante, è che le domande che pone sono sempre di più delle risposte che dà. 

Eppure queste sono molte, spesso spiazzanti, quasi sempre controtendenza: il “segreto”, per così dire, sta forse nella formazione filosofica della Hargot, che non approccia il sesso quale quintessenza e fine della vita umana, bensì come orizzonte privilegiato in cui si manifesta il mistero della persona umana.

Thérèse Hargot è una giovane sessuologa belga (nata nel 1984) con una laurea in filosofia e un master in scienze sociali alla Sorbona. Sposata, con tre figli, Thérèse ama sfidare la vulgata corrente. 

È fermamente convinta che la rivoluzione sessuale abbia apportato una liberazione senza libertà sicché, in luogo di renderci più liberi, ci ha fatti transitare da una obbedienza all’altra. In particolare la cosiddetta «liberazione sessuale» ha asservito il corpo della donna...


È quanto espone in Une jeunesse sexuellement libérée (ou presque) [Una gioventù sessualmente liberata (o quasi)], arrivato a vedere 15 mila copie.

Nel libro, uscito a febbraio in Francia (è in corso la traduzione italiana per Sonzogno), la Hargot si sofferma sull’influenza della liberazione sessuale sul nostro rapporto col sesso. È forte la sua critica al sesso tecnicizzato, igienizzato, ridotto alla combinazione meccanica dei corpi. Il paradosso, dice la sessuologa belga, è che la sessualità non è mai stata tanto «normata» come nel nostro tempo per via del combinato disposto tra il culto della performance (imposto dall’industria pornografica) e l’ansietà derivata da una morale igienista.

Fondamentalmente, confessa a «Le Figaro», è cambiato soltanto il nostro modo di relazionarsi alle cose del sesso:«Se la norma è cambiata, il nostro rapporto con la norma è lo stesso: restiamo all’interno di un rapporto di dovere. Siamo semplicemente passati dal dovere di procreare a quello di godere. Dal «non bisogna avere relazioni sessuali prima del matrimonio» al «bisogna avere relazioni sessuali il prima possibile». Una volta la norma era dettata da un’istituzione, principalmente religiosa, oggi è dettata dall’industria pornografica. La pornografia è il nuovo vettore normativo nel campo della vita sessuale».

La differenza è che la norma ora è stata interiorizzata, individualizzata. «Mentre un tempo le norme erano esteriori e esplicite, oggi sono interiorizzate e implicite. Non abbiamo più bisogno di una istituzione che ci dica quello che dobbiamo fare, l’abbiamo assimilato da soli. Non ci viene più detto esplicitamente quand’è che dobbiamo avere un figlio, ma tutte abbiamo compreso molto bene il «momento buono» per essere madri: soprattutto non troppo presto, e quando le condizioni finanziarie sono favorevoli. È quasi peggio: siccome ci crediamo liberati, non abbiamo più coscienza d’essere sottomessi a delle norme».

Ma quali sono le coordinate psicologiche disposte dalla nuova normatività sessuale? 

«La novità», risponde la Hargot, «sono le nozioni di performance e di successo, che si sono insediate al centro della sessualità. Questo tanto per il godimento quanto per il nostro rapporto con la maternità: bisogna essere una buona madre, crescere bene il proprio bebé, essere una coppia di successo. E chi dice performance e efficacia dice angoscia di non farcela. Questa angoscia crea della disfunzioni sessuali (perdita dell’erezione, ecc.). Abbiamo un rapporto molto angosciato con la sessualità, perché siamo costretti ad avere successo».


Questa nuova normatività nelle cose del sesso tocca tanto gli uomini quanto le donne, ma in maniera differente.

Non si esce dagli stereotipi: «l’uomo dev’essere performante nel suo successo sessuale, la donna nei canoni estetici».

La norma si trasmette sotto forma di discorso igienista, andato a sostituire la vecchia morale di un tempo. Si fomenta così una psicologia individuale straziata, oppressa dalla simultanea presenza del piacere e della paura. Il sesso è piacere, ma è anche un sesso pericoloso, che infetta e uccide, attenta alla vita fisica: «L’AIDS, le malattie veneree, le gravidanze indesiderate: siamo cresciuti, noi nipoti della rivoluzione sessuale, con l’idea che la sessualità fosse un pericolo. Ci dicono che siamo liberi e nello stesso tempo che siamo in pericolo. Ci parlano di «sesso sicuro» e di preservativo, abbiamo sostituito la morale con l’igiene. Cultura del rischio e illusione della libertà, questo è il cocktail liberale che ormai si è imposto anche nel campo della sessualità. Questo discorso igienista è molto ansiogeno. E inefficace: si trasmettono sempre numerose malattie veneree».

Come sessuologa, Thérèse lavora a stretto contatto con gli studenti liceali, in un’età della vita particolarmente esposta all’immaginario diffuso dall’industria pornografica. Negli adolescenti, osserva, «la cosa più significativa è l’influenza della pornografia sul loro modo di concepire la sessualità. Con lo sviluppo delle tecnologie e di internet, la pornografia viene resa estremamente accessibile e individualizzata. A partire dalla più giovane età, condiziona la loro curiosità sessuale: a 13 anni ci sono ragazzine che mi domandano cosa ne penso delle cose a tre. Più in generale, al di là dei siti pornografici, possiamo parlare di una «cultura porno» presente nei videoclip, nei reality, nella musica, nella pubblicità, ecc.».

Sulla psiche dei più piccoli poi l’impatto della pornografia è devastante: «Come può un fanciullo», si chiede la sessuologa belga, «accogliere queste immagini?». A questa età si è davvero «in grado di distinguere tra la realtà e le immagini?». 

La risposta è un no senza appello alla sessualizzazione precoce: «La pornografia sequestra l’immaginario del bambino senza lasciargli il tempo di sviluppare le proprie immagini, le proprie fantasie. Crea un grande senso di colpa per il fatto di sperimentare una eccitazione sessuale attraverso delle immagini e crea anche una dipendenza, perché l’immaginario non ha avuto il tempo di svilupparsi».

La sedicente «liberazione sessuale», si legge nel suo libro, sembra non ridursi ad altro che a questo: «Essere sessualmente liberi, nel ventunesimo secolo, vuol dire avere il diritto di fare del sesso orale a 14 anni».

Siamo in diritto di chiederci se una simile «liberazione» non si sia in realtà ritorta contro la donna. La Hargot ne è fermamente convinta: «La promessa «il mio corpo mi appartiene» si è trasformata in «il mio corpo è disponibile»: disponibile per la pulsione sessuale maschile, che non è ostacolata in nulla.

La contraccezione, l’aborto, il «controllo» della procreazione non pesano che sulla donna. La liberazione sessuale ha modificato solo il corpo della donna, non quello dell’uomo. Con la scusa di liberarla. Il femminismo egualitario che bracca i «macho» vuole imporre nello spazio pubblico un rispetto disincarnato della donna. Ma è nell’intimità, e specialmente nell’intimità sessuale, che si vanno a ristabilire i rapporti di violenza. 

Nella sfera pubblica si esibisce rispetto per le donne, in privato si guardano film porno dove le donne sono trattate come oggetti. Introducendo la guerra dei sessi, in cui le donne si sono messe in competizione diretta con gli uomini, il femminismo ha destabilizzato gli uomini, che ristabiliscono il dominio nell’intimità sessuale. Il successo della pornografia, che rappresenta spesso atti di violenza verso le donne, il successo del revenge-porn e di Cinquanta sfumatura di grigio sono lì a testimoniarlo».


Thérèse Hargot è fortemente critica anche della «morale del consenso», per la quale ogni atto sessuale va considerato un atto libero nella misura in cui è «voluto». 

Secondo un diffuso senso comune, oggi il consenso individuale è il solo criterio che permette di distinguere il bene dal male. Je consens, donc je suis, dice Michela Marzano: acconsento, dunque sono. Questo nuovo «cogito» permissivo induce gli adulti ad abdicare alla loro funzione educativa e con la sua estensione indiscriminata mette in serio pericolo l’infanzia: «Coi nostri occhi di adulti, tendiamo talvolta a considerare in maniera tenera la liberazione sessuale dei più giovani, meravigliati dalla loro assenza di tabù. In realtà subiscono delle enormi pressioni, non sono affatto liberi. La morale del consenso in linea di principio è qualcosa di giustissimo: si tratta di dire che siamo liberi quando siamo d’accordo. Ma abbiamo esteso questo principio ai bambini domandando loro di comportarsi come degli adulti, capaci di dire sì o no. 

Ora, i bambini non sono capaci di dire no. 

Nella nostra società c’è la tendenza a dimenticare la nozione di maturità sessuale. È molto importante. Al di sotto di una certa età riteniamo che vi sia una immaturità affettiva che non rende capaci di dire «no». Non c’è consenso. Bisogna davvero proteggere l’infanzia».

Andando controcorrente, la giovane sessuologa arriva ad esaltare i metodi naturali, biasima il discorso femminista e la medicalizzazione del sesso indotta dalla pillola. Quest’ultima viene elevata a «emblema del femminismo, un emblema della causa delle donne». Ma della bontà di un simile feticcio, afferma tranchant, «c’è da dubitare, visti gli effetti sulla salute delle donne e sulla loro sessualità! Sono le donne che vanno a modificare il proprio corpo, e mai l’uomo. È una cosa completamente iniqua. È in questa prospettiva che mi interessano i metodi naturali, perché sono i soli a coinvolgere equamente l’uomo e la donna. Sono basati sulla conoscenza che le donne hanno del loro corpo, sulla fiducia che l’uomo deve avere nella donna, sul rispetto del ritmo e della realtà femminili. Lo trovo in effetti molto più femminista che non distribuire un medicinale a donne in perfetta salute! Facendo della contraccezione una faccenda unicamente femminile, abbiamo deresponsabilizzato l’uomo».

Non fa eccezione a questo quadro la pratica dell’utero in affitto, «perché sopprimere la madre sarebbe l’ultima tappa del dominio maschile», osserva la sessuologa-filosofa. Con la Gpa «un uomo può creare la vita senza una donna. Certo, ha ancora bisogno del «corpo femminile», ma non si tratta più di una donna, cioè di una persona umana che per principio non può essere utilizzata come un mezzo, quali che siano il fine e le modalità. Dopo il sesso con la prostituzione, le ovaie con la riproduzione artificiale, l’utero è l’ultimo bastione conquistato dalla volontà di disporre del corpo delle donne. La sottomissione delle donne a scopi commerciali o caritatevoli tocca il suo apogeo. Da madre diventa operaia, da donna diventa serva che risponde ai comandi e alle esigenze di coloro a cui appartiene il progetto di paternità».


Si tratta di un ritorno puro e semplice alla sottomissione precedente alle conquiste del femminismo? 

«In una certa maniera sì», replica la Hargot, ma è altrettanto vero che «senza il femminismo alla Simone de Beauvoir il ragionamento ideologico della «gestazione per altri» non sarebbe stato possibile». 

È stato questo femminismo ideologico a «fornire armi e strumenti propri a una logica liberale incontrollabile. Per arrivare qui c’è voluta la contestazione per separare il corpo dallo spirito, per denigrare le esperienze carnali a vantaggio dell’espressione onnipotente della volontà. Riducendo la riproduzione al suo carattere animale, negando l’esperienza umana e spirituale che essa porta in germe e a cui può addivenire, questa ha perduto il suo carattere sacro. 

Il corpo non è più che una cosa esteriore alla persona. Dopo essere stato frazionato, il corpo può ormai essere dato in prestito, può essere acquistato, affittato o venduto in parti di ricambio e secondo le esigenze di servizio. Le donne escono così dalla riproduzione per entrare in un rapporto di produzione, col rischio di vedere legittimato, generalizzato e istituzionalizzato lo sfruttamento del corpo. L’esito di questo femminismo che ha dimenticato l’essenziale si ritorce oggi in primo luogo contro le donne stesse: l’affascinante vittoria della volontà lascia intravedere un mondo disumanizzato in cui il valore della persona dipende solo dalla sua utilità».

Sulla questione dell’omosessualità, che oggi tormenta alquanto gli adolescenti, Thérèse ricorda quanto sia riduttivo identificare la persona con un orientamento sessuale: «“Essere omosessuale” è anzitutto una battaglia politica. In nome della difesa dei diritti sono state riunite sotto una stessa bandiera arcobaleno delle realtà diverse che non hanno niente a che vedere le une con le altre. 

Chiunque dica di “essere omosessuale” ha un vissuto differente, che si inscrive in una storia differente. È una questione di desideri, di fantasie, ma non è per niente una identità propriamente detta. Non bisogna porre la questione in termini di essere, ma in termini di avere. La questione ormai ossessiona gli adolescenti, costretti a scegliere la loro sessualità. La visibilità del «coming out» interroga molto gli adolescenti che si domandano «come si fa a sapere se uno è omosessuale, come sapere se lo sono?». L’omosessualità fa paura, perché i giovani si dicono «se lo sono, non potrò mai ritornare indietro». Definire le persone come «omosessuali» vuol dire generare dell’omofobia. La sessualità non è un’identità. La mia vita sessuale non determina chi sono».

Che fare dunque con i giovani? Bisogna aiutarli a svilupparsi sessualmente, magari coi soliti corsi di educazione sessuale? 

«Non bisogna insegnare agli adolescenti a svilupparsi sessualmente», replica ferma. Piuttosto «bisogna insegnare ai giovani a diventare uomini e donne, aiutarli a sviluppare la propria personalità. 

La sessualità è secondaria in rapporto alla personalità. Invece che parlare ai ragazzi di profilattici, di contraccezione e di aborto bisogna aiutarli a costruirsi, a sviluppare una stima di sé. Bisogna creare uomini e donne che possano essere capaci di entrare in una relazione reciproca. Non occorrono dei corsi di educazione sessuale, ma dei corsi di filosofia!».

Fonte: www.aurhelio.it

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it/

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