CRISTO MORTO - ANDREA MANTEGNA

sabato 7 febbraio 2015

Stoner

è un libro di Johm Williams.
a 40 anni dalla sua pubblicazione, dopo un lungo oblio, viene riabilitato e indicato con un libro straordinario.
ne parla Le lettura del Corriere della sera, lo cita Recalcati in una sua conferenza, lo leggo anche io, me lo faccio regalare a natale.
Ho scoperto che Stoner parla in realtà di William Stoner, un ragazzo di campagna che riesce a entrare all’università del Missouri nel 1910 per poi diventare lì docente fino alla sua morte nel 1956. Con semplicità e grande forza espressiva, vengono passate in rassegna le delusioni che ne scandiscono la vita, e che la rendono deprimente solo in apparenza, perché siamo portati a identificarci con Stoner: i suoi fallimenti sono i nostri. Il romanzo è lucido nella sua compassione e, sebbene verso la fine ci si possa commuovere per il protagonista, risulta rassicurante perché l’idea di fondo è che non si è mai soli nella sofferenza: tutti soffriamo. Ma è lo stoicismo di Stoner di fronte al dolore e alla perdita a rendere così singolare questo romanzo. La sua portata drammatica sta tutta nell’atteggiamento di serena accettazione del protagonista verso ciò che gli accade. Questa passiva resistenza è ciò che lo rende un libro eccezionale, proprio perché diverso dalla maggior parte dei romanzi, dove il protagonista è sempre parte attiva nella catena di eventi drammatici che si dipana intorno a lui.
 Bret Easton Ellis, La lettura, 2014

non so se è quello che scriverei di questo romanzo.
la figura di Stoner è un turbamento. è una vita comune e, forse, è un destino comune al nostro, il suo.
quel che mi risulta evidente è la dimensione di una divisione soggettiva, lo scarto tra una vita vissuta e quella sognata: Stoner non è quel che avrebbe potuto essere, quel che avrebbe voluto essere.
Stoner, per tutta la vita, abdica al suo desiderio.
rinuncia di continuo a vivere, e sarebbe stata una gran fatica, in accordo al proprio desiderio, rinuncia a tutto, fino all'esaurimento completo delle sue risorse, fino a morirne.
l'unico momento, tra l'altro bellissimo, in cui il desiderio gli parla ed egli è disposto a perseguirlo, è quello della folgorazione per la letteratura e il suo studio. Stoner parte dalla facoltà di agraria e incespica nell'esame di letteratura inglese. capisce dalla fatica che gli costa prepararlo, dal pensiero che lo studio gli produce, dall'inciampo che questo esame gli procura, dall'ossessione per l'insegnante che tiene il corso che, la letteratura inglese,  è quel che desidera sapere nella vita.
capì che non poteva gestire l'esame di letteratura inglese come faceva con gli altri corsi...continuava a riflettere sulla parole che Archer Sloane diceva in classe, come se sotto al loro piatto significato si nascondesse una chiave che l'avrebbe condotto lì dove doveva andare.
ecco che il desiderio fa capolino, ecco che Stoner ne legge i segnali, e li asseconda.
"Cosa significa il sonetto? Cosa le sta dicendo, Mr Stoner? Cosa significa questo sonetto?" Stoner alzò lo sguardo con lentezza, riluttante. "Significa", disse, e sollevò le mani in aria con gesto vago. "Significa", ripetè, e non riuscì a terminare la frase .
significa è la vita che assume un senso, il senso del nostro desiderio. nel momento in cui lo incontra gli manca la parola, balbetta e si ferma, qualcosa gli parla e sarà per sempre. e Stoner insegnerà, con passione e dedizione,  tutta la vita. per il resto, la sua vita sarà una disfatta dopo l'altra, il matrimonio, l'amore, la figlia, i rapporti con i colleghi saranno segnati dal fallimento, dalla rinuncia, dalla passività, dalla depressione. dal non senso. è svilente questa figura, è deprimente, è, a tratti, angosciante. è particolarmente avvilente la sua sottrazione sul piano genitoriale, vede la figlia infelice nelle intenzioni manipolatorie e distruttive della madre e non fa nulla per impedirlo. indolente, si ritira dal suo ruolo paterno, lascia correre, vola le spalle, non si frappone come padre con la sua legge regolatoria alla voracità materna e la figlia cresce infelice, sara un'alcolizzata. 
Stoner è tutti noi? no, penso di no, è quel noi che rinuncia e vive nella ripetizione dei sintomi, nella disperazione, nella vuota ossessione dei gesti sempre uguali.
Stoner  un personaggio in sè privo di interesse che la narrazione letteraria rende molto interessante. la letteratura funziona da rappresentazione dell'assoluto, di ciò che altrimenti non si può dire, rende possibile l'impossibile.
come si potrebbe rappresentare la rinuncia ad abitare il proprio desiderio? così, con Stoner. ed è interessante che nel romanzo il personaggio sia solo Stoner, raramente indicato con il suo nome, William, per lo più Willy o Bill. è interessante perchè la mancanza della nominazione, del nome proprio, denota proprio il vuoto cha abita il personaggio, l'impossibiltà a vestire la propria identità.
sono rimasta folgorata dalla descrizione della sua morte, pagine sensibili e forti, indimenticabili, in cui l'abbandono della vita segna il momento della sua comprensione.
Gli sembrava di essersi svegliato da un lungo sonno, si sentiva ristorato. Era primavera inoltrata o inizio estate, ma forse più inizio estate, a giudicare dall’aspetto delle cose. Le foglie del grande olmo nel cortile sul retro erano ricche e lucenti e l’ombra dell’albero era così fresca che gli sembrava di non riconoscerla. L’aria aveva uno spessore, una pesantezza che riempiva gli odori dolci dell’erba, delle foglie e dei fiori, mescolandoli e tenendoli sospesi. Respirò di nuovo, profondamente. Sentì il rantolo del suo respiro e la dolcezza dell’estate che gli si raccoglieva nei polmoni. E avvertì anche, con quel respiro che fece, qualcosa che si spostava dentro di lui, in fondo, e spostandosi fermava qualcos’altro, immobilizzandogli la testa in modo che non potesse più muoversi. Poi la sensazione passò e si disse: ecco come deve essere. Gli sovvenne che avrebbe dovuto chiamare Edith. Poi capì che non l’avrebbe fatto. I moribondi sono egoisti, pensò. Vogliono il momento tutto per sé, come dei bambini. Riprese a respirare, ma ormai c’era qualcosa di diverso in lui che non sapeva definire. Seppe che stava aspettando qualcosa, una specie di conoscenza, ma gli sembrava di avere tutto il tempo del mondo. Udì il suono distante di una risata e voltò la testa in quella direzione. Un gruppo di studenti stava attraversando il suo cortile sul retro, per tagliare la strada; correvano chissà dove. Li vide distintamente, erano tre coppie. Le ragazze avevano gambe lunghe e aggraziate sotto ai vestitini estivi, e i ragazzi le guardavano allegri e incantati. Camminavano leggeri sull’erba, quasi senza toccarla, senza lasciare tracce del loro passaggio. Stoner li guardò mentre sparivano dalla sua vista, fin quando non poté più scorgerli. E per un lungo istante, dopo che furono svaniti, il suono delle loro risate continuò ad arrivare fino a lui, lontano e inconsapevole, nella quiete di quel pomeriggio d’estate. Cosa ti aspettavi?, pensò di nuovo. Una specie di gioia lo colse, come portata dalla brezza estiva. Ormai ricordava a malapena di aver pensato al fallimento, come se avesse qualche importanza. Gli sembrava che quei pensieri fossero crudeli, ingiusti verso la sua vita. Vaghe presenze si affollavano ai bordi della sua coscienza. Non riusciva a vederle, ma sapeva che erano lì, a raccogliere le forze in cerca di una palpabilità che non era in grado di vedere né di sentire. Si stava avvicinando a loro, lo sapeva. Ma non c’era alcun bisogno di correre. Poteva ignorarle, se voleva. Aveva tutto il tempo del mondo. Una morbidezza lo avvolse e un languore gli attraversò le membra. La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva cosa era stato. La testa si voltò. Il comodino era carico di libri che non toccava da tempo. Vi lasciò scorrere la mano per un istante e si stupì della sottigliezza delle dita, dell’intricata articolazione delle giunture mentre le fletteva. Sentì la forza dentro di loro e lasciò che prendessero un libro dal mucchietto sul comodino. Era il suo libro che cercava, e quando la sua mano lo prese, sorrise vedendo la copertina rossa tanto familiare ormai sbiadita e consumata dal tempo. Poco gli importava che il libro fosse dimenticato e non servisse più a nulla. Perfino il fatto che avesse avuto o meno qualche valore gli sembrava inutile. Non s’illudeva di potersi ritrovare in quel testo, in quei caratteri scoloriti. E tuttavia, sapeva che una piccola parte di lui, che non poteva ignorare, era lì, e vi sarebbe rimasta. Aprì il libro, e mentre lo faceva, il libro smise di essere il suo. Lasciò scorrere le dita sulle pagine e sentì un fremito, come se quelle fossero vive. Il fremito gli attraversò le dita e corse lungo la carne e le ossa. Ne era profondamente cosciente e aspettò fino a sentirsene avvolto, finché l’eccitazione di un tempo, simile al terrore, non lo immobilizzo nel punto in cui era steso. La luce del sole, attraversando la finestra, brillò sulla pagina e lui non riuscì a vedere cosa c’era scritto. Le dita si allentarono e il libro che tenevano si mosse piano e poi rapidamente lungo il corpo immobile, cadendo infine nel silenzio della stanza.

fonte: nuovateoria.blogspot.it

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