CRISTO MORTO - ANDREA MANTEGNA

sabato 15 dicembre 2018

l'omicidio del Corpus Domini


Elvira era bella.
Elvira era dolce.
Elvira era gentile e piena di sogni, che non potrà mai realizzare.
Elvira si doveva sposare ed aveva già l’abito bianco nell’armadio, quello che nel giorno delle nozze l’avrebbe fatta sentire speciale.
Elvira aveva 22 anni quando un giorno di giugno del 1947 qualcuno si prese la sua vita e la sua giovinezza e la lasciò morire annegata nel suo sangue.
L’Italia del dopoguerra si stava ricostruendo, con fatica. In quell’anno il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi ricevette dall’America un’ingente somma che “sarà utile per il consolidamento del sistema democratico”. A maggio il nostro paese fu sconvolto dall’eccidio di Portella delle Ginestre. La banda di Salvatore Giuliano riempiva le pagine dei giornali, mentre si susseguivano i governi che avrebbero dovuto dare stabilità al nostro paese devastato dalla guerra. Pochi giorni dopo i fatti di Portella, un tribunale inglese condannò a morte il maresciallo Kesserling, per la strage delle Fosse Ardeatine.
Tutto questo sembrava così distante dal piccolo abitato Toiano, un borgo di poche anime contadine in provincia di Pisa. Elvira Orlandini viveva lì, nella casa di famiglia. Era nata nel 1925 da Antonio e Rosaria. Tutti in paese la consideravano la più bella. Grandi occhi limpidi e vivaci, curve generose, capelli scuri e fluenti. Elvira passava per andare a messa e tutti si voltavano, fantasticavano. Lei di grilli per la testa non ne aveva, o almeno così si diceva, ma sono passati tanti anni, e la verità rimarrà sepolta con il resto dei segreti di quella rigogliosa e discreta campagna.


5 giugno, il giorno del Corpus Domini. Alla radio si parlava di un americano, George Marshall: quella mattina aveva presentato un piano per la ricostruzione economica dell’Europa. La notizia passò, tutti la sentirono ma nessuno la ascoltò. Erano altre le cose che contavano. La realtà contadina di Toiano era fatta di fatica e sacrifici, erano altri i pensieri. La bicicletta era un bene prezioso, che si usava fra la polvere su e giù per le colline, il vestito buono era conservato per le grandi occasioni. Le scarpe si suolavano e si risuolavano, fino a che non ne potevano più. A casa Orlandini era così. Ma presto ci sarebbe stata quella grande occasione. Elvira si sarebbe sposata con un bravo giovane. Ugo Ancillotti, serio, lavoratore, taciturno e spesso ombroso. In paese si diceva che era così a causa dei patimenti che aveva subito in guerra: era un reduce.
Elvira lavorava sodo, nei campi per aiutare la famiglia e a servizio di una facoltosa famiglia di svizzeri che possedeva la tenuta San Michele, i Salt. Erano ricchi, potenti e chiacchierati. Tutti li temevano in paese. Mancavano pochi giorni alla mietitura e poi lei e Ugo sarebbero diventati marito e moglie. La sera prima di coricarsi, forse, nel silenzio della sua stanza, interrotto solo dal canto dei grilli, Elvira apriva l’armadio per sbirciare il suo abito, per sognare a occhi aperti, come facevano tutte le ragazze della sua età.


Le due del pomeriggio. Il primo caldo, la prima afa e nubi cariche di pioggia all’orizzonte. Papà Antonio era nei campi, ad accudire i buoi, mamma Rosaria e le figlie stavano sistemando la cucina dopo il pranzo. In paese erano in corso i preparativi per la festa del Corpus Domini, a cui tutti avrebbero partecipato. Elvira uscì per andare alla fonte a prendere l’acqua. Doveva percorrere circa quattrocento metri a piedi. Aveva una brocca in mano e un asciugamano di iuta sulla spalla. Lungo la strada incontrò un’amica, Iva Pucci. Un sorriso, un saluto, quattro chiacchiere, poi Iva proseguì la sua passeggiata, aveva già preso l’acqua qualche ora prima.
Una curva sul sentiero e la ragazza sparì, inghiottita dal silenzio della campagna, dal frinire delle cicale.
Due ore dopo Elvira non era ancora rientrata. Madre e sorelle si preoccuparono, pensavano si fosse fermata lungo la strada a chiacchierare, ma si stava facendo tardi. Così mamma Rosaria si incamminò verso la fonte per cercarla, chiedendo a chiunque incrociasse se aveva visto la sua bambina.
Elvira non c’era da nessun parte. Così Rosaria decise di tornare casa a chiamare il marito. Antonio e il cognato Giovanni, con cui era nei campi, lasciarono il lavoro e corsero alla fonte. Una volta arrivati notarono per terra una grossa chiazza di sangue e segni di trascinamento verso il bosco. Rami spezzai indicavano il percorso.


Quella era una zona di fitta vegetazione, il Bosco delle Purghe, attraversata da un vecchio canale di scolo chiamato Botro della Lupa, che dalla fonte si allargava scendendo verso valle. I due uomini, cominciarono a camminare fra i cespugli, seguendo la traccia. Antonio davanti, Giovanni a breve distanza. Alcuni passi ancora e a terra videro le ciabatte di Elvira, ben sistemate una sopra l’altra, con accanto la brocca. Dopo pochi metri, dove il bosco era più fitto, c’era il suo corpo senza vita. Elvira era lì, con la gola squarciata: un taglio da 12 centimetri. Il sangue era dappertutto: sul suo viso, in bocca, sui vestiti, a terra.
Antonio non ci poteva credere. Preso dal panico, afferrò il corpo della figlia per il busto, insieme a Giovanni, in un disperato tentativo di salvarla, di trascinarla fino alla fonte. Non si rese conto che stava compromettendo irrimediabilmente la scena del crimine. Due giovani del paese, in bicicletta, si trovavano a passare in quel momento. Videro la scena e cercarono di aiutare, ma ormai non c’era nulla da fare. Corsero a chiamare i carabinieri, che arrivarono sul luogo del delitto in pochi minuti.
Il corpo della ragazza era ancora caldo. Il sangue dalla ferita sul collo le era colato nei polmoni, soffocandola in pochi secondi. Presentava altri segni di coltellate, inferte dopo la morte, sul cranio, almeno tre. Mancava l’asciugamano, sparito come il coltello. Elvira era senza mutandine. Pochi dubbi, anzi nessuno. Secondo il maresciallo dei carabinieri accorso sul posto, il colpevole non poteva che essere uno: Ugo Ancillotti.
E poi il suo comportamento era davvero strano. Come mai era arrivato sul luogo del delitto senza che nessuno glielo avesse indicato? E i suoi pantaloni? Presentavano delle macchie di sangue sospette.
Chiedendo in giro, a chi li conosceva, era emerso che spesso e volentieri i due giovani litigavano. Per un certo periodo si erano anche allontanati, per poi tornare insieme e decidere di sposarsi.
Gli elementi per chiudere in fretta il caso c’erano tutti. Il maresciallo era convinto che interrogando, senza troppi convenevoli, il giovane Ancillotti, questi sarebbe capitolato e avrebbe confessato ciò che aveva fatto in preda ad un attacco di folle gelosia. Ugo venne arrestato. Restò in carcere due anni. L’opinione pubblica teneva gli occhi puntati sul processo, sulle indagini, sugli indizi presentati a carico, sulla strategia della difesa.


Si faceva un gran parlare di quel ragazzo discreto e timido, del reduce dal bell’aspetto. E di Elvira?
Anche di lei si parlava. Le testimonianze, le voci, la ricerca della verità. A quel tempo, come oggi, della vittima si ebbe poco rispetto. Si cercava di capire se davvero Ugo l’avesse uccisa, quando avesse perso la verginità e con chi, se c’era come, come si diceva un ritardo nel ciclo della giovane prima di morire. E il lavoro dai Salt? Anche quello fu passato al microscopio, suscitando lo sconcerto e la disperazione della famiglia. Il paese era schierato con il giovane imputato, mentre l’opinione pubblica duellava fra innocentisti e colpevolisti. A difendere l’Ancillotti, per altro gratuitamente, fu Giacomo Picchiotti, noto avvocato e parlamentare socialista. Accanto a lui sedevano altri due importanti principi del foro, Gattai e Gelati. Per loro era innocente e doveva essere assolto: le prove a suo carico erano indiziarie. L’aula del tribunale divenne un’arena, fra applausi e risate.  Moltissime furono le lettere di mitomani alla corte, di folli che si auto accusavano dell’omicidio. Centinaia i messaggi per Ugo, che lo sostenevano, che lo esortavano a non cedere alle false accuse che gli erano state mosse. Il processo fu trasferito a Firenze. La difesa dimostrò che l’apparato accusatorio era inconsistente: Ugo era arrivato in bicicletta sul luogo del delitto senza che gli fosse indicato perché la strada che stava percorrendo per andare a casa di Elvira, passava proprio davanti al bosco dove fu ritrovata. La testimonianza dell’amica Iva era poco attendibile: durante il dibattimento raccontò di un incontro, fra Elvira e Ugo, nel bosco proprio il giorno dell’omicidio, ma nulla era emerso a poche ore dal ritrovamento del cadavere. E quelle impronte di scarpe n° 40 nei pressi del corpo? Ugo calzava il 43. Il sangue sui pantaloni fu escluso quasi subito; le macchie rilevate erano talmente piccole che non potevano essere compatibili con l’efferatezza della ferita inferta: gli schizzi di sangue dalla gola avrebbero imbrattato ovunque. Quella mattina poi i due erano stati a messa insieme in paese, che era finita alle 13.30 circa: il ragazzo non avrebbe avuto il tempo materiale per compiere il delitto.
Alla fine del processo l’accusa chiese 18 anni. Le prove raccolte dal maresciallo Leonardi non furono sufficienti per fugare ogni dubbio. La famiglia Orlandini si batté fino all’ultimo, convinta della colpevolezza del giovane. Il paese si schierò invece in sua difesa. Ugo Ancillotti fu assolto dopo solo tre ore di camera di consiglio, il 21 luglio 1949.
Nessun colpevole. Molte prove raccolte durante il processo non furono considerate: ad esempio la lettera anonima spedita ad Ancillotti poche settimane prima del matrimonio, in cui gli si diceva di non sposare la Orlandini, ma senza specificare il perché. Inoltre la giovane stava, nell’ultimo periodo, deperendo fisicamente. Temeva di essere incinta, lo aveva confessato ad una maga sua conoscente, di un uomo sposato e per questo temeva per la sua vita.
Fiumi di parole, di voci, di testimonianze, vere o false che fossero, si riversarono su quello che doveva essere il processo per consegnare alla giustizia l’assassino di una giovane ragazza di 22 anni. In realtà il clamore che ne scaturì distolse l’attenzione da Elvira e dalla sua triste fine. Il suo assassino non fu mai scoperto. Il 30 marzo 2013, morì Ugo, l’ultimo fra i protagonisti di questa vicenda. Fino alla fine dei suoi giorni non smise mai di professarsi innocente.
E la bella Elvira? Qualcuno dice che si aggiri ancora oggi nel Bosco delle Purghe in cerca di pace.

Rosella Reali

fonte:  https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia

Paolo Falconi, La bella Elvira. Toiano 1947: il delitto del Corpus Domini, il "giallo" di una storia vera di Paolo Falconi, CDL Libri, 2002.


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ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

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