Il XVI secolo fu periodo di grandi cambiamenti in molti settori. Questo avvenne anche all’interno dei tribunali dell’Inquisizione si assistette al passaggio della gestione del processo contro l’accusato al tribunale secolare, evento che fece la fortuna di numerosi giudici facinorosi che cercavano di emergere ad ogni costo.
Mentre il giudice prima era spettatore passivo dell’applicazione della giustizia di Dio, ora divenne inquisitore attivo, ricercatore della prova di colpevolezza, con il supporto e il consiglio dei frati, abili assistenti nel procurare con ogni strumento disponibile il massimo dolore.
Il vantaggio di questa collaborazione fu reciproco.
In questo scenario che si svolse la vicenda che vi vorrei raccontare.
Fine del 1700. Siamo in Sicilia, la terra dei fichi d’india, dove cielo e mare si confondono all’orizzonte, dove il sole brucia la pelle e la terra che, generosa, non risparmia comunque i suoi frutti.
Palermo come molte altre città italiane era divisa fra poveri straccioni analfabeti che sopravvivevano nelle strade tra mille difficoltà, e ricchi eleganti, che spendevano le loro giornate tra feste lussuose e noiose passeggiate.
In questo tempo Giovanna Bonanno, al secolo la Megera dell’aceto, visse una storia di miseria e solitudine.
Giovanna era una levatrice, brava e preparata. Conosceva bene il suo mestiere per questo era spesso chiamata ad assistere anche donne ricche e potenti, spose o amanti di uomini illustri.
A Giovanna il denaro non bastava mai, per questo, avutane l’occasione, cercò di farne di più ricattando un uomo molto potente di Palermo, a cui nacque, con l’aiuto della levatrice, un figlio illegittimo.
La donna fu arrestata e condotta in prigione. Fu la sua rovina.
Detenuta per 5 anni, ormai in età avanzata, all’uscita dal carcere non aveva più nulla: lavoro, casa, amici, parenti, tutto sparito. L’attendeva la miseria più nera. Anche il suo viso, segnato dalla sofferenza, era quello di una donna brutta e vecchia, con rughe profonde come il suo dolore per essere stata rifiutata dal mondo.
Giovanna era arrabbiata, con tutti.
Era rosa dal tarlo dei soldi, dalla rabbia costante, dalla tristezza profonda.
Il ricordo per la sua vita passata la rendeva ancora più rabbiosa. Era stata sposata, con un uomo buono, che amava molto, ma era rimasta vedova giovane. Tutta questa rabbia aveva fatto emergere il suo lato oscuro, la sua natura malvagia.
Giovanna era anche stata furba: sapeva leggere e aveva avuto la possibilità così di distinguersi dalla massa di poveri analfabeti che popolavano Palermo. Dai libri però prese solo cattivi insegnamenti, che cercò di sfruttare a proprio beneficio. Divenne un’abile fattucchiera, capace di preparare intrugli d’amore per i disperati che a lei si rivolgevano. Ben presto la voce sulla sua abilità si sparse per tutte le strade del quartiere dove abitava e così malocchio, problemi di cuore e di virilità le permisero di sopravvivere per lungo tempo in modo dignitoso. Ma la natura avida di Giovanna non le consentì di stare bene a lungo. I soldi non bastavano mai. Un giorno venne a sapere che poco lontano da casa sua una bambina, per errore, aveva ingerito una specie di aceto usato per uccidere i pidocchi. La piccola era stata molto male, il vomito l’aveva squassata per giorni fra atroci dolori, poi si era lentamente ripresa. I medici avevano a lungo cercato di capire cosa le fosse successo, nessuna traccia sul corpo della bimba.
La Bonanno ebbe un’idea, pensò e ripensò a come usare questo aceto per trarre profitto. Così decise di comprarne una piccola dose, unita a dell’arsenico per fare degli esperimenti sugli animali, per capire come agiva questo intruglio, se era letale e in quanto tempo faceva effetto. Aveva trovato uno strumento di morte invisibile.
Il passo da fattucchiera a Megera fu breve.
Giovanna Bonanno nel 1786 iniziò a compiere i primi omicidi, per soldi ma anche per piacere.
La sua prima cliente fu Angela La Fata, detta Angelica per il suo carattere mite e la sua bellezza. In realtà tanto mite Angelica non era. Si innamorò perdutamente di un tale Giuseppe Bilotta. Perse la testa per lui. Ma La Fata era coniugata da tempo. Che fare? “La vecchia Bonanno ti potrà aiutare ad uccidere tuo marito, usa il veleno”, le disse un’amica. Così la donna si recò dalla Megera, che però non era esperta: l’umo sopravvisse due volte all’avvelenamento, soffrendo le pene dell’inferno. Al terzo tentativo morì dopo giorni di sofferenza, contorcendosi fra atroci dolori. I medici non compresero la causa del male.
Giovanna aveva raggiunto lo scopo, incassati i soldi si chiese subito come trovare altri clienti.
Emanuela Molinari fu la sua seconda acquirente. Moglie infelice del fornaio di quartiere, Ferdinando Lo Piccolo, con due dosi di intruglio fornite dalla Bonanno, la donna divenne una vedova consolabile.
La fama delle Megera crebbe in tutta Palermo e con essa i suoi introiti e la sua soddisfazione nel veder morire di “morta misteriosa” le persone attorno a lei.
Donne e uomini la interpellavano per portare a compimento i propri oscuri progetti.
Tante erano le richieste per Giovanna che la donna si trovò una “procuratrice”, tale Maria Pitarra, che riuscì a portarle anche clienti illustri. L’ultimo fu una certa Rosa Mangano, che avvelenò il marito Francesco Costanzo per fuggire con il giardiniere Emanuele Cascino.
Ma questa volta qualcosa andò storto. Forse nella vicenda giocò un ruolo fondamentale la malafede della Pitarra, desiderosa di prendere il posto di Giovanna.
Il Costanzo era figlio di una vecchia conoscente della Bonanno, che sapeva bene la sua fama. Fu così che la donna, dopo aver fatto un po’ di domande in giro, arrivò al nome della Megera. Con l’inganno si finse un‘acquirente della maligna pozione, ma anziché presentarsi all’incontro sola, andò all’appuntamento accompagnata dalle guardie, che arrestarono Giovanna con ancora le ampolle velenose in mano.
Il processo ebbe inizio alla fine del 1788. Portata nella stanza delle torture, fu rasata e sottoposta al supplizio della corda.
Al dolore la donna non seppe resistere e confessò tutto.
In due anni di attività il numero presunto dei decessi attribuibili all’intruglio inventato dalla Bonanno fu considerevole, ma solo sei furono ricondotti a lei senza dubbio. Nella cella accanto alla sua finì la Pitarra.
L’esecuzione venne fissata per il 30 luglio 1789. Il patibolo fu posizionato ai Quattro Canti o Teatro del Sole, una piazza ottagonale all'incrocio di due grande vie di Palermo. La gente arrivò da tutta la citta per assistere.
Giovanna Bonanno aveva 80 anni il giorno in cui fu giustiziata per impiccagione. Quando la corda le spezzo la carotide, un brivido di terrore si levò dalla folla.
Da questo momento il poi la storia divenne leggenda. Pare che il suo corpo fu profanato, per esorcizzare la paura che il suo spirito malvagio potesse tornare a perseguitare chi era presente. Le furono strappati i denti, i pochi che le rimanevano, e le unghie delle dita e venne fatta a pezzi. Da quel giorno il suo nome divenne uno spauracchio per i bambini disobbedienti.
Poco dopo Maria Pitarra la seguì nello stesso destino.
Leggendo la storia di questa donna mi sono chiesta fino a che punto le vicende che accadono nella vita di ciascuno di noi sono in grado di influenzare in negativo le azioni di chi le sta vivendo. Al posto di Giovanna saremmo diventati tutti assassini seriali? Sono le vicende negative o i fatti violenti a determinare e a far emergere il male che naturalmente alberga in noi? Oppure scegliamo liberamente di dare sfogo alla nostra natura? I moderni studiosi non sono unanimi nel giudizio. Sicuramente molti passi avanti sono stati fatti dal tempo in cui Cesare Lombroso riteneva che la circonferenza del cranio oppure la grandezza dei lobi delle orecchie fossero segni distintivi della malvagità umana.
Oggi Giovanna Bonanno, dalla moderna criminologia, sarebbe definita come un’assassina per profitto, cioè colei che uccide sistematicamente per un tornaconto economico, secondo la classificazione di Kelleher&Kelleher del 1998 sulle donne serial killer.
Al suo tempo su catalogata come Megera e il suo corpo disperso per impedirne il ritorno in vita.
Rosella Reali
fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/
Bibliografia
Carlo Lucarelli, Massimo Picozzi – SK, storie di ossessione omicida – Oscar Mondadori, 2003
Angelica Artemisia Pedatella – Le donne più malvagie della storia d’Italia – Newton Compton Editori, 2015
Luigi Natoli – La vecchia dell’aceto - Flaccovio Dario, 2014
Kelleher &Kelleher – Murder Most Rare: The Female Serial Killer - 1999
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