CRISTO MORTO - ANDREA MANTEGNA

martedì 30 settembre 2014

la storia segreta dell'Unione Europea: il piano Kalergi


di Sebastiano Caputo

Esistono due storie che raccontano la nascita dell’Unione Europea. Una ufficiale, di facciata, sponsorizzata dall’intero apparato accademico che narra di un gruppo eterogeneo di persone, i cosiddetti padri fondatori della “nuova Europa”, il quale successivamente al conflitto mondiale iniziò a progettare la pace, l’unità e la prosperità nel Vecchio continente per poi dare vita ad una comunità di Stati in cooperazione tra di loro. E poi c’è una storia reale ma oscurata, che rivela il progetto di un uomo, l’aristocratico Richard Koudenove-Kalergi (giapponese di madre e austriaco di padre), il quale non fu mai protagonista degli eventi ma che fu, nel retroscena, artefice allo stesso modo dei vari De Gasperi, Shuman, Monnet e Adenauer, probabilmente ancor più influente poiché a differenza di questi ultimi, aveva una visione planetaria e non europea.


Nel 1922, Koudenove-Kalergi fonda la Paneuropa (o Unione Paneuropea) con lo scopo apparente di impedire un nuovo conflitto continentale, tuttavia nel 1925 in una relazione presentata alla Società delle Nazioni i fini dell’austro-giapponese si manifestano chiaramente. Il suo obiettivo primario era quello di unificare l’Europa, al fine di integrarla all’interno di un’organizzazione mondiale politicamente unificata, in poche parole un governo mondiale, che a sua volta federasse nuove federazione continentali (“continenti politici”, proprio come la “Paneuropa”). 



Inoltre nel suo libro «Praktischer Idealismus» pubblicato nel 1925, Kalergi espone una visione multiculturalista e multi-etnicista dell’Europa, dichiarando che gli abitanti dei futuri “Stati Uniti d’Europa” non saranno i popoli originali del Vecchio continente, bensì una sorta di subumanità resa bestiale dalla mescolanza razziale, e affermando senza mezzi termini che “è necessario incrociare i popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’elite al potere. L’uomo del futuro sarà di sangue misto. La razza futura eurasiatica-negroide, estremamente simile agli antichi egiziani, sostituirà la molteplicità dei popoli, con una molteplicità di personalità”.


Nel 1926 Koudenove-Kalergi organizzò la prima conferenza paneuropea di Vienna, sotto gli auspici del suo presidente onorario, il presidente Aristide Briand (1862-1932) e fu proprio in questo convegno che si decise di scegliere l’inno europeo, l’Inno alla gioia di Beethoven, che in seguito diventerà l’inno ufficiale dell’Unione Europea. Ma è durante questo primo congresso che sono esposti in modo chiaro, lucido, gli obiettivi a breve, medio e lungo termine di questo contenitore di idee: “l’Unione Pan-europea ribadisce il suo impegno al patriottismo europeo, a coronamento dell’identità nazionale di tutti gli europei. Nel momento dell’interdipendenza e delle sfide globali, solo una forte Europa unita politicamente è in grado di garantire il futuro dei suoi popoli ed entità etniche. L’Unione Paneuropea riconosce il diritto all’autodeterminazione dei gruppi etnici allo sviluppo (…) culturale, economico e politico”.

Negli anni Trenta, Koudenove-Kalergi condanna fermamente il modello nazional-socialista di Adolph Hitler e quello sovietico di Stalin, tanto che l’industria tedesca revoca definitivamente i finanziamenti all’Unione paneuropea, mentre gli intellettuali filo-sovietici lasciano l’associazione. Durante la Seconda Guerra Mondiale il fondatore della Paneuropa si rifugia negli Stati Uniti, nei quali insegnò in un seminario presso la New York University – “La ricerca per una federazione europea del dopoguerra” – a favore del federalismo europeo.

Nel 1946, Koudenove-Kalergi torna in Europa e la sua personalità gioca un ruolo di estrema rilevanza. La Paneuropa riprende le forze e si creano in tutti Paesi europei delle delegazioni (Paneurope France, Paneuropa Italia, ecc.) che in pochi mesi diffusero gli ideali paneuropeisti a quelli che poi furono considerati i “padri fondatori della nuova Europa”. Queste delegazioni contribuirono alla realizzazione dell’Unione parlamentare europea, che successivamente consentì la creazione nel 1949, del Consiglio d’Europa. Il suo “impegno” intellettuale e politico gli permisero di aggiudicarsi nel 1950 il prestigioso premio prettamente continentale “Carlo Magno” e, persino in suo onore fu stato istituito il premio europeo Coudenhove-Kalergi che ogni due anni premia gli europeisti che si sono maggiormente distinti nel perseguire il suo “ideale” confederativo e mondialista. Tra questi troviamo nomi come Angela Merkel e Herman Van Rompuy.

Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. 


Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasfertosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Da qui vediamo lo stretto legame tra Wall Street, quindi gli Stati Uniti d’America e la volontà già negli anni Venti di federare l’Europa sotto una sola guida politica, probabilmente per dominarla meglio. Richard Coudenhove-Kalergi non fu un visionario del suo tempo proprio perché egli fu un manovratore della partita. Non a caso l’Europa sognata dall’aristocratico austro-giapponese è la stessa di oggi, quella del terzo millennio.



Fonte & Fonte 
fonte: freeondarevolution.blogspot.it

è ufficiale: il microchip r-fid sbarca nella scuola italiana!




Ci siamo. Il microchip R-fid è sbarcato nella scuola italiana. In una scuola di Cles (un piccolo comune in provincia di Trento) è stato introdotto per il controllo degli ingressi degli studenti, per monitorare i ritardi. Per ora il microchip NON è impiantato sottopelle, ma la direzione intrapresa è inequivocabile.  Già da un paio d'anni negli Stati Uniti molte scuole hanno introdotto il microchip R-Fid, sanzionando chi lo rifiuta

Staff nocensura.com
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Di seguito l'articolo de ladige.it

studentiNon solo astuccio, quaderni e libri. Quest'anno l'occorrente da mettere nello zainetto per la scuola si è arricchito di un nuovo elemento: il microchip. A Cles, le presidi degli istituti superiori «Russell» e «Pilati» hanno dotato ogni studente di un tag adesivo applicato sul libretto delle assenze, che consente la rilevazione elettronica dei ritardi. Una rivoluzione digitale legata all'adozione del nuovo registro elettronico.

Il microchip viene intercettato da rilevatori appositamente installati agli ingressi del polo scolastico, per segnalare le presenze al passaggio dei ragazzi. La novità non è certo passata inosservata, tanto da diventare tema di dibattito nel corso di una recente assemblea d'istituto al liceo Russell convocata per l'elezione dei rappresentanti. In passato, i ritardi venivano rilevati attraverso un codice a barre stampato sul libretto, e ora qualche ragazzo non riesce proprio a tollerare l'adozione dei trasmettitori elettronici.

«Chissà cosa ci aspetterà il prossimo anno - si è chiesto un giovane davanti ai compagni di scuola -. Forse il microchip sarà impiantato sottopelle, oppure assegneranno a ognuno di noi un braccialetto elettronico o un radiocollare come per gli orsi indisciplinati». Altri studenti hanno lamentato di non essere stati coinvolti nella decisione di acquistare i chip.


La raccomandazione della dirigente dell'Itcg Pilat iAlessandra Pasini, nella comunicazione di inizio anno scolastico, è di custodire con cura il libretto personale (e dunque il microchip che contiene). Chi dovesse danneggiarlo o smarrirlo, sarà tenuto ad acquistarne uno nuovo al prezzo di 20 euro. Ma i contestati rilevatori di presenza sono davvero così costosi? «Macché - risponde la dirigente Pasini -, la scuola ha speso meno di un euro per ognuno. L'obbligo di riacquisto serve a responsabilizzare gli studenti, alle cui famiglie peraltro non viene richiesto alcun contributo per frequentare i vari laboratori di chimica, informatica, elettronica e meccanica. Altrove non funziona così, ma la nostra è un'organizzazione efficace nonostante la sua complessità».

La dirigente riferisce, dunque, di non aver avvertito malumori tra i suoi 760 studenti in merito all'adozione dei nuovi dispositivi: «Non sono invasivi della libertà della persona e rilevano soltanto l'orario di ingresso a scuola. In questo modo si facilita il lavoro dei nostri 119 insegnanti nel fare l'appello e compilare il registro, perché credo che le loro energie vadano convogliate in ciò che realmente conta».

Al liceo Russell, la dirigente Tiziana Rossi ammette che i microchip hanno creato qualche malcontento. «Ho già avuto qualche colloquio con i nuovi rappresentanti d'istituto, che mi hanno espresso le loro perplessità - riferisce la preside -. Questa tecnologia non va demonizzata, e garantisco che da parte della scuola non c'è alcuna volontà di controllo. Il tag adesivo garantisce certezza sul dato rilevato, nell'interesse degli studenti ai fini del voto in condotta». Chi diserta un quarto delle lezioni, infatti, non viene neppure ammesso alla valutazione finale.

«Sarebbe complesso contabilizzare le ore perse attingendo ai dati dei registri cartacei, mentre i microchip garantiscono la certezza dell'orario rilevato, e questo è un elemento di interesse per i nostri 1.080 studenti - conclude la dirigente del Russell -. Il registro elettronico è un nuovo modo di comunicare con le famiglie e chiederemo proprio il supporto dei ragazzi per la formazione degli adulti nell'approccio a questa tecnologia».

fonte: www.nocensura.com

lunedì 29 settembre 2014

11 settembre: gli Usa erano a conoscenza del piano dal 1995


WORLD TRADE CENTER
Manila è una città enorme in cui raramente cala il silenzio. I dodici milioni di abitanti che la popolano ne fanno una delle più grandi metropoli del pianeta, è certamente la città con più alta densità abitativa, con oltre quarantunomila abitanti per chilometro quadrato: due volte quella di Parigi, quattro quella di Tokyo, venti la densità di Buenos Aires. Una città che non dorme mai. Una città perennemente solcata da coloratissimi pulmini color argento e poi tutti i restanti colori dell’arcobaleno. Una città dove rintracciare qualcuno diventa impresa pressoché impossibile. Tant’è che la criminalità rappresenta una delle piaghe che il governo non riesce nemmeno ad intaccare: ogni volta i criminali spariscono nel nulla. Impossibile trovarli.
La sera di venerdì 6 gennaio 1995 era una serata come un’altra. Decine di ragazzi, ragazze ed anziani si sfidavano a scacchi al Teodoro Valencia Circe, all’interno di Luneta Park. Il più grande parco commerciale di tutta l’Asia (Mall of Asia) era affollato da curiosi e consumatori. Migliaia di coppiette di innamorati e di famiglie con carrozzine e bambini al seguito inondavano la passeggiata lungo la baia. Era una serata come tante altre a Manila.
Doña Josefa è un residence che si trova a Cordillera, in una zona residenziale a est della città. La strada alberata è una traversa di Quezon Avenue, un lunghissimo viale che taglia in due la capitale delle Filippine. A due passi dal residence si trova la Banca Nazionale e la Commissione per il servizio civile, un chilometro più a ovest c’è la baia. Dall’altra parte della strada, due bar dall’aria sudicia e sempre affollati danno un tocco caratteristico alla strada.
Doña Josefa è un complesso di edifici bianchi di sei piani. Mini appartamenti divisi da pareti di carton gesso, spesso con grosse macchie di umidità, e grossi rumorosi condizionatori in ogni stanza. Questa storia si svolse nell’appartamento numero 603, di proprietà di Edith Guerrera.

Trentacinque anni, labbra sempre messe in risalto da un pesante rossetto color rosso, sorriso accattivante, forme inusuali per una donna filippina, la signora Edith era una donna in carriera molto socievole e allegra. Di professione faceva la stilista. E, per arrotondare i suoi guadagni, affittava i quattro appartamenti di sua proprietà.
Uno di questi, l’appartamento 603 appunto, l’aveva affittato solo un mese prima. Quando l’8 dicembre precedente i suoi due inquilini si erano presentati alla reception aveva riso. I due avevano compilato, pochi minuti prima, l’apposito modulo, sbagliando a scrivere i propri nomi.
«Ehi! Mi era capitato di tutto finora, ma mai nessuno si era sbagliato a scrivere il proprio nome. Ve li siete dimenticati? Mi sa proprio che è così».
«Forza, ragazzi, non fate i timidi. Se non sapete come vi chiamate è sufficiente che leggiate che cosa c’è scritto sui vostri documenti», e giù una risata.
I due terminarono di compilare i loro nuovi moduli e li riconsegnarono alla reception. Poi, sempre in silenzio, presero l’ascensore per il sesto piano, dove si trovava il loro appartamento, che avevano prenotato giorni prima spedendo un mese di anticipo come deposito. Quarantamila pesos a testa, ottantamila in totale. Tradotto in euro, seicentocinquanta a testa per un mese di affitto.
Sui moduli c’era scritto “Naji Haddad” e “Abdel Hakim Murad”, di professione piloti.
L’errore commesso nella compilazione del modulo era inconsueto per un tipo così meticoloso come Naji Haddad, o Ramzi Yousef, se preferite.
Yousef e Murad erano sbarcati nelle Filippine un anno prima. Un anno passato centinaia di chilometri a sud di Manila, su una grande isola piena di vegetazione e ricca di piogge. Un anno passato ad addestrare i combattenti di un gruppo estremista islamico chiamato Abu Sayyaf.
«Quando li vidi pensai che fossero due studenti. Assomigliavano in tutto e per tutto e due studenti. Due studenti sui generis, però. Erano sospettosi verso tutto e tutti. Chiudevano a doppia mandata la porta sia quando uscivano, sia quando si trovavano in casa. Non permettevano a nessuno di entrare, nemmeno al ragazzo delle pulizie», ricordò in seguito la giovane stilista.
Il giorno dopo il loro arrivo vennero consegnati due grossi pacchi. Nessuno seppe che cosa contenessero, fino a quella sera del 6 gennaio: sostanze chimiche e materiale per confezionare esplosivi.
L’arrivo dei due scatoloni, però, insospettì un informatore della polizia che alloggiava al Doña Josefa. Apolinario Medenilla chiamò il suo agente di riferimento. Il giorno stesso l’appartamento venne tenuto sotto stretta sorveglianza.
Le sostanze erano state spedite dal finanziatore della coppia di falsi studenti. Si chiamava Khaled Sheikh Mohammed. I finanziamenti giungevano attraverso la Konsonjaya, una società di import-export con sede nella capitale malese Kuala Lumpur. Miele dal Sudan e beni alimentari dal resto del mondo al Sudan, in questo consisteva il business di Khaled Sheikh Mohammed. L’uomo d’affari aveva anche un secondo ruolo nella società degli umani: era a capo delle operazioni militari della Jemaah Islamiah, la rete estremista islamica del sud-est asiatico.
Durante tutto il mese di dicembre Yousef e Murad frequentarono regolarmente due karaoke bar della zona, il primo si trovava in Adriatico Street, il secondo in Roxas Boulevard. Ogni sera a cantare al karaoke, e mai in moschea.
«Ci divertivamo troppo al karaoke. Ci piaceva cantare e ascoltare gli altri cantare. In moschea non c’era nulla di divertente da fare», spiegò in seguito Murad.
Durante le serate cantanti Yousef era solito presentarsi ai camerieri e agli altri avventori con un terzo nome: non come Yousef e nemmeno come Haddad. «Mi disse di chiamarsi Salem Ali. Disse che era un ricco uomo d’affari che veniva dal Qatar», raccontò Arminda Costudio, una delle cameriere del Manila Bay Club di Roxas Boulevard. Murad, invece, si presentava con il nome di «Abdel Magid».
La ragazza continuò: «Indossavano entrambi uno smoking tuxedo, avevano addosso rotoli di contante che distribuivano a tutti i camerieri, rimorchiavano tutte le ragazze che gli passavano a tiro. Non erano quello che ci si aspetta da un estremista islamico. Magid (alias Murad) aveva una ragazza che lavorava in un bar a Quezon City. Si chiamava Rose Mosquera».
C’è di più. Murad era ancora più spendaccione del suo socio. Più sere aveva soggiornato in un albergo a cinque stelle sulla costa, prendendo lezioni di immersioni. Arrivò ad affittare un elicottero al solo scopo di volare davanti all’ufficio della sua ragazza per il solo fatto di impressionarla.
Carol Santiago era invece la ragazza di Yousef: «Ci siamo conosciuti ad un Seven-Eleven di Adriatico Street (uno di quei negozi che vendono dai generi alimentari, alle sigarette, ai giornali che restano aperti 24 ore su 24, nda). Mi si presentò come Salem Ali, uomo d’affari saudita. Gli piaceva cantare, bere, spendere soldi».
Carol non sapeva che Yousef oltre ad essersi divertito era responsabile di una serie di atti terroristici che avevano insanguinato le Filippine nell’anno appena trascorso, tra cui l’assassinio di un giovane ingegnere giapponese.
«Lo sa che ancora a distanza di anni quasi settimanalmente vengono da me turisti giapponesi chiedendomi di poter affittare l’appartamento 603? Vogliono poter percepire i pensieri di un assassino, mi dicono», rivela Edith Guerrera.
Erano le undici di sera del 6 gennaio 1995 a Manila. Di lì a sei giorni nella capitale filippina sarebbe arrivato in visita ufficiale il Papa Giovanni Paolo II. La città era sotto assedio, come si conviene in queste occasioni.
Al Doña Josefa regnava il silenzio. La signorina Guerrera si trovava nel suo appartamento, quando il campanello squillò. Erano gli inquilini dell’appartamento 604 e 607.
«C’è puzza di bruciato proveniente dall’appartamento 603. Per favore, chiami i vigili del fuoco».
I pompieri arrivarono in pochi minuti, senza però riuscire ad entrare nell’appartamento in questione. Yousef e Murad urlarono da dietro la porta: «È tutto ok! Non c’è nessun incendio in corso!».
Il caso però volle che insieme ai vigili del fuoco, davanti alla porta del 603 c’era anche Aida Fariscal. Aida era una cinquantacinquenne ostinata e piena di voglia di lasciare qualche segno di sé prima di andare in pensione. Aida era una poliziotta. Era l’agente di riferimento di Apolinario Medenilla.
Nonostante le urla tranquillizanti da parte dei due inquilini, l’agente forzò la porta.
Il ricco uomo d’affari arabo e il suo compare cercarono di nascondere il contenuto dei due scatoloni, inutilmente. Sempre inutilmente, Magid, alias Murad, cercò di corrompere l’agente Fariscal. Duemila dollari in biglietti di piccolo taglio. Centodiecimilasettecentoquaranta pesos.
Come andò a finire?
Nel piccolo salotto erano sparsi in bella mostra batuffoli di cotone impregnato di acido solforico, una soluzione di liquido beige, quattro dischi di ferro alti venti centimetri e del diametro di sessanta, una rete intricatissima di fili elettrici verdi, rossi, blu e gialli, più altre sostanze dal colore incerto. Il contenuto di una delle boccette si era rovesciato in parte su un mobile, in parte sul pavimento. Da lì la puzza di bruciato.
Subito dopo il ritrovamento cominciò a squillare il telefono. Immediatamente si scatenò il panico. Erano tutti convinti che il telefono fungeva da detonatore per gli ordigni. Per loro fortuna si sbagliavano (nessuno seppe mai chi stava chiamando e perché). L’unica persona a rimanere calma fu l’agente Fariscal, che arrestò senza scomporsi gli inquilini.
La perquisizione dell’appartamento 603 iniziò alle due e mezza del mattino del 7 gennaio. La polizia trovò: una carta stradale di Manila, con su segnate le strade dove sarebbe transitato il corteo del Papa; un rosario, una fotografia del pontefice; alcune bibbie in varie lingue; crocifissi, abiti da prete. E ancora: due contenitori di plastica pieni di acido solforico, acido picrico (altamente esplosivo), acido nitrico, glicerina pura, acetone, triclorato di sodio, nitrobenzenolo, ammoniaca, nitrato d’argento ed Anfo, ovvero un’accelerante della combustione composto da nitrato d’ammonio, gasolio ed altri additivi minori. E poi, dietro una sorta di doppiofondo nel muro: alcuni litri di gasolio, termometri, cilindri graduati, filtri, tondini d’acciaio, timer e molto altro. Insomma, c’era tutto il materiale necessario per assemblare molte bombe in grado di falciare decine di persone ciascuna.
Per non parlare dei dodici falsi passaporti, tra cui uno norvegese, uno afgano, uno saudita e uno pachistano. Tra i tanti documenti falsi c’erano però anche i due passaporti veri. Una leggerezza che obbligò una delegazione del Fbi a salire di gran fretta su un aereo intercontinentale destinazione Manila.
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Ramzi Yousef era uno degli uomini più ricercati del pianeta. Due anni prima aveva fatto parte di un commando terrorista che aveva piazzato 680 chili di tritolo in un camion che si trovava nei parcheggi sotterranei del World Trade Center di New York. La deflagrazione aveva causato diciassette morti e oltre mille feriti.
Magro, capelli neri folti, sopracciglia a V rovesciata, lenti a contatto. Yousef era nato in Kuwait ventisette anni prima. I suoi genitori era originari del Baluchistan,, la regione divisa tra l’Iran a ovest e il Pakistan a est. Quando alla metà degli anni Ottanta tornò con la famiglia a Quetta prese la cittadinanza pachistana.
Il soggiorno a Quetta fu breve. Il giovane Ramzi venne spedito in Galles per proseguire gli studi. E così nel 1986 fece il suo ingresso al Swansea Institute, facoltà di ingegneria elettrica. Si laureò quattro anni più tardi. Studiò anche all’Oxford College of Further Education, dove migliorò considerevolmente il suo inglese.
Ma furono i suoi studi di ingegneria a segnare il suo futuro. Dopo aver abbracciato gli ideali di lotta dell’estremismo islamico, grazie alle sue conoscenze dei circuiti elettrici divenne un abile confezionatore di bombe.
Frequentava il secondo anno di università quando un collega di studi lo invitò a partecipare ad una riunione dei Fratelli musulmani, un’organizzazione estremista islamica nata in Egitto. Un paio di mesi di riunioni settimanali e il ventunenne Ramzi aderì al gruppo.
Un mese dopo fece il secondo passo più importante della sua vita. In Afghanistan la guerra con i sovietici non si era ancora conclusa. Nell’estate del 1988 lo studente pachistano si imbarcò ad Heathrow su di un aereo in partenza per Islamabad. Destinazione un villaggio sperduto a poche decine di chilometri e sud-est di Jalalabad, nell’Afghanistan orientale.
La vita nel campo di addestramento di Khalden era dura, gli scontri con l’Armata Rossa altrettanto. Yousef, però, era felice. Di natura socievole, si era fatto molti amici al campo. Inoltre, alcuni membri della sua famiglia combattevano al suo fianco. Aveva fatto amicizia anche con due persone che venivano da oltre oceano, che avevano la pelle bianca con tendenza ad arrossarsi al sole e che non parlavano una parola di pashtu, di dari o di qualsiasi altro dialetto afgano.
Graham Fuller e Gust Avrakotos erano della Cia. Si trovavano laggiù per fornire alla resistenza mujaheddin tutte le armi e il supporto logistico di cui avevano bisogno nella lotta contro l’invasore sovietico. Erano due ragazzi a modo, con il sorriso aperto e una gran curiosità.
Ramzi non ebbe difficoltà a fare amicizia con entrambi. Ben presto l’amicizia si trasformò in qualcos’altro. Ramzi Yousef da Kuwait City, con passaporto pachistano e laurea britannica divenne un collaboratore della Central Intelligence Agency, con sede a Langley, in Virginia, in mezzo a colline boscose a pochi chilometri a sud di Washington.
Negli anni successivi i viaggi in Afghanistan si susseguirono con una certa frequenza, prima per cacciare i sovietici, poi per piegare la resistenza del presidente comunista Muhammad Najibullah.
Durante uno di questi viaggi il neo collaboratore della Cia Youssef conobbe un saudita dai modi colti e gentili, un uomo che come lui parlava un inglese forbito. Si chiamava Osama bin Laden.
Saranno stati i racconti del college, ma i due trovarono subito un’intesa. Tanto che bin Laden lo ospitò diverse volte nella sua bianca villa di Peshawar, in Pakistan, soprannominata “la casa dei martiri”.
E non solo. Bin Laden aveva così grande fiducia in lui da assegnargli il delicato compito di aprire una nuova cellula nelle Filippine.
Yousef atterrò per la prima volta a Manila nel 1989. Dopo aver svolto il suo compito con diligenza e capacità organizzative non comuni, il laureando ingegnere se ne tornò in Galles. Nelle Filippine era appena nata un’organizzazione terroristica con il nome di Abu Sayyaf.
Ramzi non poteva saperlo ma il successo della missione filippina aveva suscitato un certo interesse in alcuni uffici di Langley.
Così, quando gli fu comunicato che doveva partire per gli Stati Uniti per una missione importante Yousef ne fu sorpreso e lusingato. Non si venne mai a sapere se fu qualcuno della Cia ad organizzare quel viaggio o se fu un’idea aliena agli americani.
Fatto sta che il primo settembre 1992 l’ingegnere pachistano sbarcò all’aeroporto di Newark munito di passaporto iracheno insieme a un compagno di viaggio, Ahmed Ajaj, dotato di passaporto svedese, anch’esso falso.
L’accoglienza al Liberty International non fu piacevole. Uno dei poliziotti di frontiera si accorse che il passaporto di Ajaj era falso. I due passarono le successive settantadue ore negli uffici dell’Immigrazione. Ajaj venne rispedito in Pakistan. A Yousef andò meglio. Disse di essere un pachistano nato in Kuwait che era venuto negli Stati Uniti per chiedere asilo politico. L’Fbi prese informazioni su di lui. La Cia fornì le sue, di informazioni. Al termine di un processo durato due mesi, il 9 novembre Razim Yousef entrò legalmente in territorio statunitense con un passaporto emesso dalle autorità pachistane sul quale si leggeva il nome di Abdul Basit Mahmud Abdul Karim. La fortuna, o qualsiasi cosa fosse, aveva girato dalla sua parte ancora una volta.
In New Jersey egli incontrò un egiziano dei Fratelli musulmani. Si chiamava Omar Abdel Rahman. Su di lui pendeva un mandato internazionale per essere stato uno degli organizzatori dell’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat. Eppure lo sceicco cieco (così veniva soprannominato) predicava liberamente tra New York e il New Jersey. Altrettanto liberamente poté progettare un secondo attacco terroristico, questa volta contro il World Trade Center di New York. Yousef era laggiù per questo.
Ci vollero due mesi e mezzo per portare a termine il piano. Il 26 febbraio 1993 quattro bombe esplosero in contemporanea nei sotterranei del centro finanziario newyorchese.
Ci furono sette morti e oltre mille feriti, ma le torri gemelle non crollarono. Anzi, dopo l’attentato si decise di rinforzarne le fondamenta. Fu solo una prova generale o un tentativo fallito di anticipare l’11 settembre?
Comunque sia, due giorni dopo un pachistano di nome Karim si imbarcò con successo per Baghdad. Di lui si persero le tracce.
Non si seppe più nulla fino al 7 gennaio 1995, quando il suo amico d’infanzia Murad venne portato nella stazione di polizia numero 9 di Manila, arrestato per tentata strage. Murad, sotto tortura, parlò.
Nato a Kuwait City e residente a Karachi, in Pakistan, anche quest’ultimo si era laureato in ingegneria. Non aveva frequentato un college britannico, però. Aveva condotto i suoi studi in Nord Carolina. Stato nel quale aveva anche conseguito un brevetto da pilota d’aerei da turismo, presso la Coastal Aviation Inc.
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Il ritrovamento più significativo nell’appartamento non furono i componenti per assemblare le bombe, bensì un computer portatile Toshiba e quattro floppy disk che si trovavano in una tasca laterale di una borsa.
“Tutti quelli che aiutano il governo statunitense sono nostri bersagli. Perché tutte queste persone sono responsabili delle azioni del governo Usa e ne condividono le azioni. Colpiremo tutti gli obiettivi nucleari statunitensi. Colpiremo dentro e fuori del territorio americano, incluso…”, fine di uno dei testi registrati uno dei floppy.
Nel computer, invece, c’erano una serie di file che citavano un fantomatico piano “Bojinka”. Un nome il cui significato impegnò alcuni analisti per diversi anni. “Bojinka” in serbo croato vuol dire “grande botto”.
Inoltre, su altri file c’erano decine di nomi, fotografie, nomi di alberghi, di aziende, luoghi e date di appuntamenti.
Alcuni esempi? Mohammed Jamal Khalifa, uomo d’affari saudita di Jeddah sposato a una delle sorelle di Osama bin Laden. Indicazioni sul mercato della carne di Kuala Lumpur (Malaysia) e del suo proprietario. Informazioni su un centro islamico di Tucson (Arizona). Dati dettagliati che avrebbero permesso di ricostruire molti movimenti bancari di denaro sporco in transito attraverso alcune banche di Abu Dhabi (Emirati arabi uniti). Una lettera di minacce diretta al presidente filippino Fidel Ramos.
In un altro file c’erano solo tre parole: «Khalid Sheikh + Bojinka». In un altro ancora si potevano leggere informazioni approfondite sulla Konsojaya, la società malese che finanziava questa fantomatica operazione “grande botto”.
Infine, un documento, un foglio elettronico ricco di date, numeri, nomi, luoghi e procedure. Il documento “grande botto”. Il piano. L’operazione “Bojinka”.
Undici voli di linea intercontinentali, in viaggio dall’Asia agli Stati Uniti, principalmente della United e dell’American Airlines, da lanciare come missili contro edifici in varie città statunitensi.
Ogni volo aveva un codice, accompagnato da dettagliatissime informazioni sul tipo di aereo (come peso, capacità di carburante, dimensione, numero dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio, velocità eccetera).
Per comprendere l’importanza del ritrovamento nell’appartamento 603, a Manila volò anche il capo dell’antiterrorismo della Cia, Vincent Cannistraro: «Non avevamo mai visto nulla di simile prima. Non avevamo mai visto un piano così complicato ed ambizioso. Quando ho dato un’occhiata a quel computer non credevo ai miei occhi. Ho pensato: “Abbiamo un problema”».
Ma le sorprese non erano finite lì. Murad venne interrogato dalla polizia filippina il giorno successivo. Sarebbe più appropriato dire: torturato. Ebbene, l’amico d’infanzia di Yousef confessò di aver preso lezioni di volo per oltre un anno con lo scopo di compiere un’azione suicida. Avrebbe dovuto sequestrare un aereo di linea, prenderne il comando, mettersi alla cloche e poi lanciarsi con il jumbo contro l’obiettivo prescelto.
Il quartier generale della Cia a Langley. Il Congresso, la Casa Bianca, il Pentagono a Washington. Le torri gemelle a New York. La Sears Tower di Chicago. La TransAmerican Tower di San Francisco
«La cosa buffa è che Murad e molte altre persone i cui nomi si trovano nei file del Toshiba portatile hanno preso lezioni di volo in America», fece notare Aida Fariscal a Cannistraro.
Senza volerlo la polizia filippina, e di conseguenza l’antiterrorismo statunitense, erano entrati in possesso del progetto del più devastante attacco terrorista della storia. Un attacco che avrebbe portato morte nel cuore degli Stati Uniti. Un attacco che avrebbe potuto mettere in ginocchio l’economia dell’Occidente. Adesso che avevano tutte quelle informazioni in loro possesso Fbi, Cia, Nsa, Dia e tutte le altre agenzia di intelligence Usa avrebbero potuto prendere le contromisure necessarie e bloccare il piano.
Avrebbero potuto. Ma la storia non procede sempre secondo logica. A partire dal fatto che la persona che figurava come centrale nell’operazione “Bojinka”, Ramzi Yousef, lavorava proprio per la Cia.

Fonte: popoffquotidiano.it
Tratto da: informatitalia

fonte: www.nocensura.com

domenica 28 settembre 2014

troppi testimoni uccisi, non chiamatelo mostro di Firenze

Ho deciso di scrivere questo articolo dopo la vicenda del perito nella vicenda Moby Prince, sfuggito per miracolo alla morte; qualche giorno fa l’uomo, dopo essere stato narcotizzato da 4 persone incappucciate è stato poi messo in un’auto a cui hanno dato fuoco. Si è salvato per un pelo, essendosi risvegliato in tempo dal narcotico. L’incidente è identico a molti altri capitati a testimoni di processi importanti della storia d’Italia. Non tutti però sanno che gli stessi identici incidenti sono capitati a molti dei testimoni nella vicenda del Mostro di Firenze. Se n’è scritto tanto, e i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette. La vicenda del mostro, in effetti, per anni è stata considerata come un giallo in cui occorreva trovare il serial killer. In realtà la vicenda può essere guardata da una prospettiva assolutamente diversa, cioè quella tipica di tutte le stragi di Stato italiane.
L’ostinato occultamento delle prove affinché non si giunga alla verità, grazie al coinvolgimento della massoneria e dei servizi segreti; l’inefficienza degli Il mistero del cosiddetto Mostro di Firenzeapparati statali nel reprimere queste situazioni; l’impreparazione culturale quando si tratta di affrontare questioni che esulano da un normale omicidio o rapina in banca e si toccano temi esoterici. Dal 1968 al 1985 vengono uccise otto coppie di giovani nelle campagne di Firenze. In 4 di questi duplici omicidi vengono prelevate delle parti di cadavere, seni e pube in particolare. La vera e propria caccia al Mostro comincia dopo il terzo omicidio, quando si capisce che dietro ad essi c’è la stessa mano. Dopo errori giudiziari, e vicende varie, si arriva all’incriminazione di Pietro Pacciani nel 1994. Appare chiaro che Pacciani è colpevole, o perlomeno che è gravemente coinvolto in questi omicidi. Gli indizi infatti sono gravi, precisi e concordanti: in particolare lo inchiodano il ritrovamento di un bossolo di pistola nel suo giardino, inequivocabilmente proveniente dalla pistola del Mostro (una beretta calibro 22); l’asta guidamolla della pistola del Mostro, inviata agli investigatori avvolta in un pezzo di panno identico a quello poi trovato in casa Pacciani; e soprattutto un portasapone e un blocco da disegno, di marca tedesca, che verrà riconosciuto come appartenente alla coppia tedesca uccisa dal Mostro.
C’era poi un biglietto trovato in casa sua, con scritto “coppia” e un numero di targa corrispondente a quello di una coppia uccisa. Le intercettazioni telefoniche ed ambientali poi fecero il resto, mostrando che Pacciani mentiva, celando agli investigatori diverse cose importanti. Eppure il processo fa acqua da tutte le parti. Tante cose, troppe, non quadrano in quel processo. Non quadra il movente, perché Pacciani – benché violento e benché in passato avesse già ucciso, per giunta con modalità che a tratti ricordano quelle di alcuni delitti – non sembra il ritratto del serial killer. Non quadrano alcuni particolari (ad esempio le perizie stabiliranno che l’uomo che ha sparato doveva essere alto almeno un metro e ottanta, mentre Pacciani è alto molto meno). Inoltre durante il processo alcuni dei suoi amici mentono palesemente per coprirlo, sembrando quasi colludere con lui. Perché mentono? In primo grado Pacciani verrà condannato. In secondo grado verrà assolto. L’impianto accusatorio, in effetti, era abbastanza fragile. Però proprio il giorno prima della sentenza di secondo grado, la Procura di Firenze riesce a trovare nuovi testimoni (quattro) che inchiodano Pacciani e soprattutto riescono a spiegare il motivo di alcune incongruenze. Due diPaccianiquesti testimoni sono infatti complici di Pacciani e, autoaccusandosi, svelano che in realtà quei delitti erano commessi in gruppo.
Ma la Corte di appello di Firenze decide di non sentire questi testimoni, e assolve Pacciani. La sentenza verrà annullata dalla Cassazione, ma nel frattempo Pacciani muore in circostanze poco chiare. Apparentemente muore di infarto, ma Giuttari, il commissario che segue le indagini per la Procura di Firenze, sospetta un omicidio. Nel 2002 l’indagine sul Mostro si riapre, ma a Perugia. Per capire come e perché si riapre però dobbiamo fare un passo indietro. Il 13 ottobre del 1985 viene trovato nel Lago Trasimeno il corpo di un giovane medico perugino, Francesco Narducci. Il caso viene archiviato come un suicidio, anche se la moglie non crede a questa versione dei fatti. E sono in molti a non crederlo. Anzi, da subito alcuni giornali ipotizzano un coinvolgimento del Narducci nei fatti di Firenze. Nel 2002 la procura di Perugia, intercettando per caso alcune telefonate, sospetta che il medico perugino sia stato assassinato e fa riesumare il cadavere. Il cadavere riesumato ha abiti diversi rispetto a quelli indossati dal cadavere nel 1985.
Altri, numerosi e gravi indizi, nonché le testimonianze della gente che quel giorno era presente al ritrovamento, portano a ritenere che il cadavere ripescato allora non fosse quello di Narducci, e che solo in un secondo tempo sia stata riposta la salma del vero Narducci al posto giusto. Indagando sul caso, il Pm di Perugia, Mignini, scopre che il giorno del ritrovamento le procedure per la tumulazione furono irregolari; che quel giorno sul molo convogliarono diverse autorità, tutte iscritte alla massoneria, come del resto era iscritto alla massoneria il padre del medico morto e il medico stesso. E si scopre che il Narducci era probabilmente coinvolto negli omicidi del Mostro di Firenze. Anzi, forse era proprio lui che, in alcune occasioni, asportò le parti di cadavere. Le indagini portano ad ipotizzare una pluralità di mandanti coinvolti negli omicidi del mostro, che commissionavano questi omicidi per poi utilizzare le parti di cadavere per alcuni riti satanici. In particolare, il Lotti confessa che questi omicidi venivano pagati da un medico. E con unFrancesco Narducci accertamento sulle finanza di Pacciani verranno trovati capitali per centinaia di milioni, di provenienza assolutamente inspiegabile.
Vengono mandati 4 avvisi di garanzia a 4 persone, tra cui il farmacista di San Casciano Calamandrei, un medico e un avvocato, che sarebbero i mandanti dei delitti del Mostro di Firenze. Mentre per occultamento di cadavere, sviamento di indagini e altri reati minori (che inevitabilmente andranno in prescrizione) vengono rinviate a giudizio il padre di Ugo Narducci e i fratelli di Francesco; il questore di Perugia Francesco Trio, il colonnello dei carabinieri Di Carlo, l’ispettore Napoleoni, l’avvocato Fabio Dean e molti altri, quasi tutti iscritti alla stessa loggia massonica, la Bellucci di Perugia, e alcuni di essi, compreso il padre di Narducci, collegati addirittura alla P2. Appartengono alla P2 Narducci e il questore Trio, mentre l’avvocato Fabio Dean è il figlio dell’avvocato Dean, uno dei legali di Gelli. In questa vicenda sono presenti ancora una volta i servizi segreti e i loro depistaggi, nonché tutte le mosse tipiche che vengono attuate quando occorre depistare.
In pratica l’indagine conosce una prima fase, che arriva fino al processo di appello di Pacciani, in cui essa scorre senza problematiche particolari, tranne ovviamente quella tipica di ogni indagine, e cioè l’individuazione dei colpevoli. Ma appena si apre la pista dei mandanti si scatena un vero inferno. Anzitutto lo screditamento degli inquirenti, che vengono derisi, sminuiti; vengono continuamente sottolineati gli errori fatti da costoro (come se fosse semplice condurre un’indagine del genere senza commetterne); la Procura fiorentina viene spesso presentata dai giornali come una Procura che vuole a tutti i costi incastrare degli innocenti; Giuttari viene presentato come uno che vuole farsi pubblicità; un pazzo che crede alla folle pista satanista; quando il commissario è vicino alla verità lo si isola, oppure si cerca di trasferirlo con una meritata promozione (che però metterebbe in crisi tutta l’inchiesta). Più volte giornali e televisioni annunceranno scoop fantastici tesi a demolire il lavoro di anni della Procura di Firenze, e di Perugia. AlcuniMichele Giuttarigiornalisti che ipotizzano il collegamento tra massoneria, delitti del Mostro e sette sataniche vengono querelati, anche se le querele verranno poi ritirate.
Vengono fatte indagini parallele e non ufficiali, di cui non vengono informati gli inquirenti. Il Pm Mignini scopre che dopo l’ultimo delitto del Mostro la polizia di Perugia aveva indagato su Narducci e sul Mostro, e ciò risulta dai prospetti di lavoro, datati 10 settembre 1985. Ma di queste indagini non viene avvisata la Procura di Firenze. Ma in compenso anche i carabinieri, per non essere da meno, fanno le loro indagini parallele di cui non informano gli inquirenti. Alcuni carabinieri confidano che anni prima avevano fatto un’irruzione nell’appartamento fiorentino del Narducci per trovare le parti di cadavere che il Narducci teneva nell’appartamento, ma che erano stati “preceduti”. Anche di questi fatti la Procura di Firenze non viene informata. Queste indagini parallele erano coordinate a Perugia dall’ispettore Napoleoni, che pare agisse addirittura all’insaputa del suo diretto superiore, Speroni (così scrive Licciardi nel suo libro). Su Narducci c’era un fascicolo da tempo, ma il fascicolo venne smarrito, e ritrovato dopo anni privo di varie parti. Così come scomparvero misteriosamente molti reperti che erano stato acquisiti durante le indagini, come la famosa pietra a forma di piramide trovata sulla scena di uno dei delitti.
Non manca poi – stando alla ricostruzione di Giuttari nel suo libro – anche il procuratore capo di Firenze, Nannucci (che è sempre stato contrario all’indagine sui mandanti) che avvisa un indagato, il giornalista Mario Spezi, dell’imminente indagine; questo fatto verrà segnalato alla Procura di Genova, che però archivierà la posizione del procuratore. Infine, ci sono gli immancabili depistaggi dei servizi segreti deviati. Il Sisde aveva già dai tempi del terzo delitto preparato un dossier che ipotizzava che non fosse coinvolto un solo serial killer, ma i componenti di una setta satanica che agivano in gruppo, e ciò appariva evidente da alcuni particolari della scena del delitto. Ma questo dossier – che porta la data del 1980 – non viene mai consegnato agli inquirenti di Firenze. Il dossier era firmato da Francesco Bruno, consulente del Sisde. In totale, sono tre gli studi commissionati dal Sisde che si persero misteriosamente per strada e non arrivarono mai sulle scrivanie degli inquirenti fiorentini. Guarda caso, proprio quei dossier che ricostruivano la pista dei mandanti plurimi e delle messe nere. Ma qualche Francesco Brunoanno dopo Francesco Bruno, intervistato, sosterrà che a suo parere il serial killer è un mostro isolato, ancora in libertà.
Ci sono poi le solite morti sospette tipiche di tutte le grosse vicende giudiziarie italiane. Una vera strage, in realtà. O meglio, una strage nella strage. La prima morte sospetta è quella del medico perugino trovato morto nel Lago Trasimeno. Poi la morte di Pacciani, per la quale la Procura di Firenze apre un fascicolo per omicidio. E poi la solita mattanza di testimoni. Elisabetta Ciabiani, una ragazza di venti anni che aveva lavorato nell’albergo dove Narducci e la sua loggia massonica si riunivano e che aveva rivelato al suo psicologo, Maurizio Antonello (fondatore dell’Associazione per la ricerca e l’informazione delle sette) il nome di alcuni mandanti del Mostro e aveva rivelato il coinvolgimento della Rosa Rossa nei delitti: Elisabetta verrà trovata uccisa a colpi di coltello, compresa una coltellata al pube, ma il caso venne archiviato come suicidio. Mentre lo psicologo Maurizio Antonello verrà trovato “suicidato”, impiccato al parapetto della sua casa di campagna.
Renato Malatesta, marito di Antonietta Sperduto, l’amante di Pacciani, che viene trovato impiccato, ma con i piedi che toccano per terra; uno degli innumerevoli casi di suicidi in ginocchio, che non fanno certo l’onore delle nostre forze di polizia subito pronte ad archiviare il caso come suicidio nonostante l’evidenza dei fatti. Francesco Vinci e Angelo Vargiu, sospettati di essere tra i compagni di merende di Pacciani (il primo è anche amante di Milva Malatesta) trovati morti carbonizzati nell’auto. Anna Milva Mattei, anche lei bruciata in auto. Claudio Pitocchi, morto per un incidente di moto, che sbanda ed esce di strada all’improvviso, senza cause apparenti. Anche questa è una modalità che troviamo in tutte le vicende italiane in cui sono coinvolti servizi segreti e massoneria: Ustica, soprattutto, e poi nel caso Clementina Forleo. Milva Malatesta e il suo figlio Mirko, anche loro trovati carbonizzati nell’auto; una fine curiosamente simile a quella che volevano far fare al perito del Moby Prince poche settimane fa. La stessa tecnica. Così come la tecnica dei suicidi in ginocchio è identica a quella dei morti di Ustica Uno degli omicidi rituali consumati sulle colline di Firenzee di tutte le altre stragi che hanno insanguinato l’Italia. Tecniche identiche, che fanno ipotizzare una firma unica: quella dei servizi segreti deviati.
Rolf Reineke, che aveva visto una delle coppiette uccise poche ore prima della loro morte, che muore di infarto nel 1983. Domenico, un fruttivendolo di Prato che scompare nel nulla nell’agosto del 1994 e venne considerato un caso di lupara bianca. E poi ce ne sono tanti altri. C’è il caso di tre prostitute, una suicidatasi e due accoltellate, che avevano avuto rapporti a vario titolo con i “compagni di merende”, e chissà quanti alltri di cui si non si saprà mai nulla. Un discorso a parte va fatto per Luciano Petrini. Consulente informatico, nel 1996 avvicinò una persona (anche lei testimone al processo), Gabriella Pasquali Carlizzi, dandole alcune informazioni sul Mostro e mostrando di sapere molto su questa vicenda; ma il 9 maggio fu ucciso nel suo bagno, colpito ripetutamente con un portasciugamani a cui tolsero la guarnizione per renderlo più tagliente. Nella casa non compaiono segni di scasso o effrazione. Conclusioni: omicidio gay. Nessuno prende in considerazione altre piste. Nessuno prende in considerazione – soprattutto – l’ipotesi più evidente: Petrini aveva svolto consulenza nel caso Ustica, sul suicidio del colonnello dell’aereonautica Mario Ferraro, quel Mario Ferraro che venne trovato impiccato al portasciugamani del bagno. Ma il fatto che sia stato ucciso – guarda caso – proprio con un portasciugamani, non induce a sospettare di nulla. Omicidio gay!?!?
La verità sul mostro di Firenze non si saprà mai. Non si sapranno mai i nomi dei mandanti, perlomeno non di tutti. Non mi interessa poi così tanto capire se Pacciani era il vero Mostro o fu solo incastrato. Se Narducci era il Mostro, o se erano altri. Se Pietro Toni, il procuratore che chiese l’assoluzione di Pacciani e definì «aria fritta» l’ipotesi dei mandanti sia in mala fede oppure se gli sia sfuggito un “leggerissimo” particolare: che una simile mattanza di testimoni e di occultamenti presuppone un’organizzazione dietro tutto questo. E che a fronte dei depistaggi, delle sparizioni di fascicoli, dei tentativi di insabbiamento, l’ipotesi del mandante isolato diventa fantascientifica, perché in tal caso si impone di presupporre che tutti gli investigatori che si sono occupati delle vicende del mostro siano impazziti o si siano messi d’accordo per fregare Pacciani e gli altri, e che tutti i testimoni siano morti per delle coincidenze. Atteniamoci quindi ad un dato di fatto. Quando in un’indagine importante compare il binomio massoneria-servizi segreti, questo binomio indica che sono coinvolti dei mandanti eccellenti, al di là di ogni immaginazione.
Finisco questo articolo riportando le parole di un mio amico di infanzia, ufficiale dei carabinieri di un paese della Toscana. Mi ha detto: «Certo, Paolo, che dietro ai delitti del Mostro di Firenze ci sono alcune sette sataniche legate a logge deviate della massoneria. I fatti di Perugia parlano chiaro. Noi spesso sappiamo chi sono e cosa fanno certi personaggi. Ma abbiamo l’ordine di non indagare. Vedi, un tempo, se toccavi il tasto mafia-politica e indagavi su questo filone, o scrivevi un pezzo di giornale, morivi. Oggi la politica ha capito che è inutile uccidere per questo, perché i magistrati si possono trasferire, i reati vanno in prescrizione. Insomma, ci sono altri mezzi per insabbiare un’inchiesta. Ma il tasto delle sette sataniche, e dei coinvolgimenti eccellenti in queste sette, non si può toccare, altrimenti si muore. Pensa che ogni anno, in Italia, spariscono migliaia di bambini. Oltre ai dati ufficiali della polizia di Stato, ce ne sono molti altri – Rom, immigrati clandestini – che non compaiono nelle statistiche. E questi bambini finiscono nel circuito delle Franceschettisette sataniche, che sono collegate spesso al circuito dei sadici e pedofili, che pagano cifre astronomiche per video ove i bambini muoiono veramente».
Questo mio amico non sapeva, all’epoca, che ero coinvolto anch’io in vicende che riguardavano la massoneria deviata e raccontò queste cose con tranquillità, davanti alla mia fidanzata dell’epoca, mentre eravamo seduti in un bar. Tempo dopo, quando lo venne a sapere e gli feci delle domande, negò di avermi mai dato quelle informazioni. Ma, lo ripeto, quello che importa non sono i nomi. Non è se Tizio o Caio sia coinvolto, e in che cosa sia coinvolto. Anche perché il singolo nome talvolta può essere il frutto di un errore, di un tentativo di screditare qualcuno. E francamente a me non è questo che fa paura. Ciò che fa paura è la vastità delle connivenze; il fatto che per delitti di questa gravità ed efferatezza ci possano essere coperture eccellenti e che la macchina della giustizia sia paralizzata. Il fatto che gli organi investigativi siano impreparati quando si affrontano vicende che sfiorano l’esoterismo e i servizi segreti deviati. Eppure la vicenda del Mostro di Firenze dovrebbe interessare tutti, non solo gli amanti dei gialli, dell’horror e dell’esoterismo. Il vero mostro, in questa vicenda, non è solo chi ha ucciso, ma anche tutte le persone che hanno coperto la verità, che in virtù dei loro legami con la massoneria deviata o con pezzi deviati dello Stato hanno coperto, colluso, e taciuto. Il vero mostro è la massoneria deviata, che come una piovra si è insinuata in tutti i punti vitali dello Stato. Il Mostro di Firenze è solo uno dei suoi tentacoli.
(Paolo Franceschetti, estratti da “Il Mostro di Firenze: quella piovra che si insinua nello Stato”, dal blog di Franceschetti del 16 dicembre 2007).

fonte: www.libreidee.org