CRISTO MORTO - ANDREA MANTEGNA

sabato 15 dicembre 2018

l'omicidio del Corpus Domini


Elvira era bella.
Elvira era dolce.
Elvira era gentile e piena di sogni, che non potrà mai realizzare.
Elvira si doveva sposare ed aveva già l’abito bianco nell’armadio, quello che nel giorno delle nozze l’avrebbe fatta sentire speciale.
Elvira aveva 22 anni quando un giorno di giugno del 1947 qualcuno si prese la sua vita e la sua giovinezza e la lasciò morire annegata nel suo sangue.
L’Italia del dopoguerra si stava ricostruendo, con fatica. In quell’anno il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi ricevette dall’America un’ingente somma che “sarà utile per il consolidamento del sistema democratico”. A maggio il nostro paese fu sconvolto dall’eccidio di Portella delle Ginestre. La banda di Salvatore Giuliano riempiva le pagine dei giornali, mentre si susseguivano i governi che avrebbero dovuto dare stabilità al nostro paese devastato dalla guerra. Pochi giorni dopo i fatti di Portella, un tribunale inglese condannò a morte il maresciallo Kesserling, per la strage delle Fosse Ardeatine.
Tutto questo sembrava così distante dal piccolo abitato Toiano, un borgo di poche anime contadine in provincia di Pisa. Elvira Orlandini viveva lì, nella casa di famiglia. Era nata nel 1925 da Antonio e Rosaria. Tutti in paese la consideravano la più bella. Grandi occhi limpidi e vivaci, curve generose, capelli scuri e fluenti. Elvira passava per andare a messa e tutti si voltavano, fantasticavano. Lei di grilli per la testa non ne aveva, o almeno così si diceva, ma sono passati tanti anni, e la verità rimarrà sepolta con il resto dei segreti di quella rigogliosa e discreta campagna.


5 giugno, il giorno del Corpus Domini. Alla radio si parlava di un americano, George Marshall: quella mattina aveva presentato un piano per la ricostruzione economica dell’Europa. La notizia passò, tutti la sentirono ma nessuno la ascoltò. Erano altre le cose che contavano. La realtà contadina di Toiano era fatta di fatica e sacrifici, erano altri i pensieri. La bicicletta era un bene prezioso, che si usava fra la polvere su e giù per le colline, il vestito buono era conservato per le grandi occasioni. Le scarpe si suolavano e si risuolavano, fino a che non ne potevano più. A casa Orlandini era così. Ma presto ci sarebbe stata quella grande occasione. Elvira si sarebbe sposata con un bravo giovane. Ugo Ancillotti, serio, lavoratore, taciturno e spesso ombroso. In paese si diceva che era così a causa dei patimenti che aveva subito in guerra: era un reduce.
Elvira lavorava sodo, nei campi per aiutare la famiglia e a servizio di una facoltosa famiglia di svizzeri che possedeva la tenuta San Michele, i Salt. Erano ricchi, potenti e chiacchierati. Tutti li temevano in paese. Mancavano pochi giorni alla mietitura e poi lei e Ugo sarebbero diventati marito e moglie. La sera prima di coricarsi, forse, nel silenzio della sua stanza, interrotto solo dal canto dei grilli, Elvira apriva l’armadio per sbirciare il suo abito, per sognare a occhi aperti, come facevano tutte le ragazze della sua età.


Le due del pomeriggio. Il primo caldo, la prima afa e nubi cariche di pioggia all’orizzonte. Papà Antonio era nei campi, ad accudire i buoi, mamma Rosaria e le figlie stavano sistemando la cucina dopo il pranzo. In paese erano in corso i preparativi per la festa del Corpus Domini, a cui tutti avrebbero partecipato. Elvira uscì per andare alla fonte a prendere l’acqua. Doveva percorrere circa quattrocento metri a piedi. Aveva una brocca in mano e un asciugamano di iuta sulla spalla. Lungo la strada incontrò un’amica, Iva Pucci. Un sorriso, un saluto, quattro chiacchiere, poi Iva proseguì la sua passeggiata, aveva già preso l’acqua qualche ora prima.
Una curva sul sentiero e la ragazza sparì, inghiottita dal silenzio della campagna, dal frinire delle cicale.
Due ore dopo Elvira non era ancora rientrata. Madre e sorelle si preoccuparono, pensavano si fosse fermata lungo la strada a chiacchierare, ma si stava facendo tardi. Così mamma Rosaria si incamminò verso la fonte per cercarla, chiedendo a chiunque incrociasse se aveva visto la sua bambina.
Elvira non c’era da nessun parte. Così Rosaria decise di tornare casa a chiamare il marito. Antonio e il cognato Giovanni, con cui era nei campi, lasciarono il lavoro e corsero alla fonte. Una volta arrivati notarono per terra una grossa chiazza di sangue e segni di trascinamento verso il bosco. Rami spezzai indicavano il percorso.


Quella era una zona di fitta vegetazione, il Bosco delle Purghe, attraversata da un vecchio canale di scolo chiamato Botro della Lupa, che dalla fonte si allargava scendendo verso valle. I due uomini, cominciarono a camminare fra i cespugli, seguendo la traccia. Antonio davanti, Giovanni a breve distanza. Alcuni passi ancora e a terra videro le ciabatte di Elvira, ben sistemate una sopra l’altra, con accanto la brocca. Dopo pochi metri, dove il bosco era più fitto, c’era il suo corpo senza vita. Elvira era lì, con la gola squarciata: un taglio da 12 centimetri. Il sangue era dappertutto: sul suo viso, in bocca, sui vestiti, a terra.
Antonio non ci poteva credere. Preso dal panico, afferrò il corpo della figlia per il busto, insieme a Giovanni, in un disperato tentativo di salvarla, di trascinarla fino alla fonte. Non si rese conto che stava compromettendo irrimediabilmente la scena del crimine. Due giovani del paese, in bicicletta, si trovavano a passare in quel momento. Videro la scena e cercarono di aiutare, ma ormai non c’era nulla da fare. Corsero a chiamare i carabinieri, che arrivarono sul luogo del delitto in pochi minuti.
Il corpo della ragazza era ancora caldo. Il sangue dalla ferita sul collo le era colato nei polmoni, soffocandola in pochi secondi. Presentava altri segni di coltellate, inferte dopo la morte, sul cranio, almeno tre. Mancava l’asciugamano, sparito come il coltello. Elvira era senza mutandine. Pochi dubbi, anzi nessuno. Secondo il maresciallo dei carabinieri accorso sul posto, il colpevole non poteva che essere uno: Ugo Ancillotti.
E poi il suo comportamento era davvero strano. Come mai era arrivato sul luogo del delitto senza che nessuno glielo avesse indicato? E i suoi pantaloni? Presentavano delle macchie di sangue sospette.
Chiedendo in giro, a chi li conosceva, era emerso che spesso e volentieri i due giovani litigavano. Per un certo periodo si erano anche allontanati, per poi tornare insieme e decidere di sposarsi.
Gli elementi per chiudere in fretta il caso c’erano tutti. Il maresciallo era convinto che interrogando, senza troppi convenevoli, il giovane Ancillotti, questi sarebbe capitolato e avrebbe confessato ciò che aveva fatto in preda ad un attacco di folle gelosia. Ugo venne arrestato. Restò in carcere due anni. L’opinione pubblica teneva gli occhi puntati sul processo, sulle indagini, sugli indizi presentati a carico, sulla strategia della difesa.


Si faceva un gran parlare di quel ragazzo discreto e timido, del reduce dal bell’aspetto. E di Elvira?
Anche di lei si parlava. Le testimonianze, le voci, la ricerca della verità. A quel tempo, come oggi, della vittima si ebbe poco rispetto. Si cercava di capire se davvero Ugo l’avesse uccisa, quando avesse perso la verginità e con chi, se c’era come, come si diceva un ritardo nel ciclo della giovane prima di morire. E il lavoro dai Salt? Anche quello fu passato al microscopio, suscitando lo sconcerto e la disperazione della famiglia. Il paese era schierato con il giovane imputato, mentre l’opinione pubblica duellava fra innocentisti e colpevolisti. A difendere l’Ancillotti, per altro gratuitamente, fu Giacomo Picchiotti, noto avvocato e parlamentare socialista. Accanto a lui sedevano altri due importanti principi del foro, Gattai e Gelati. Per loro era innocente e doveva essere assolto: le prove a suo carico erano indiziarie. L’aula del tribunale divenne un’arena, fra applausi e risate.  Moltissime furono le lettere di mitomani alla corte, di folli che si auto accusavano dell’omicidio. Centinaia i messaggi per Ugo, che lo sostenevano, che lo esortavano a non cedere alle false accuse che gli erano state mosse. Il processo fu trasferito a Firenze. La difesa dimostrò che l’apparato accusatorio era inconsistente: Ugo era arrivato in bicicletta sul luogo del delitto senza che gli fosse indicato perché la strada che stava percorrendo per andare a casa di Elvira, passava proprio davanti al bosco dove fu ritrovata. La testimonianza dell’amica Iva era poco attendibile: durante il dibattimento raccontò di un incontro, fra Elvira e Ugo, nel bosco proprio il giorno dell’omicidio, ma nulla era emerso a poche ore dal ritrovamento del cadavere. E quelle impronte di scarpe n° 40 nei pressi del corpo? Ugo calzava il 43. Il sangue sui pantaloni fu escluso quasi subito; le macchie rilevate erano talmente piccole che non potevano essere compatibili con l’efferatezza della ferita inferta: gli schizzi di sangue dalla gola avrebbero imbrattato ovunque. Quella mattina poi i due erano stati a messa insieme in paese, che era finita alle 13.30 circa: il ragazzo non avrebbe avuto il tempo materiale per compiere il delitto.
Alla fine del processo l’accusa chiese 18 anni. Le prove raccolte dal maresciallo Leonardi non furono sufficienti per fugare ogni dubbio. La famiglia Orlandini si batté fino all’ultimo, convinta della colpevolezza del giovane. Il paese si schierò invece in sua difesa. Ugo Ancillotti fu assolto dopo solo tre ore di camera di consiglio, il 21 luglio 1949.
Nessun colpevole. Molte prove raccolte durante il processo non furono considerate: ad esempio la lettera anonima spedita ad Ancillotti poche settimane prima del matrimonio, in cui gli si diceva di non sposare la Orlandini, ma senza specificare il perché. Inoltre la giovane stava, nell’ultimo periodo, deperendo fisicamente. Temeva di essere incinta, lo aveva confessato ad una maga sua conoscente, di un uomo sposato e per questo temeva per la sua vita.
Fiumi di parole, di voci, di testimonianze, vere o false che fossero, si riversarono su quello che doveva essere il processo per consegnare alla giustizia l’assassino di una giovane ragazza di 22 anni. In realtà il clamore che ne scaturì distolse l’attenzione da Elvira e dalla sua triste fine. Il suo assassino non fu mai scoperto. Il 30 marzo 2013, morì Ugo, l’ultimo fra i protagonisti di questa vicenda. Fino alla fine dei suoi giorni non smise mai di professarsi innocente.
E la bella Elvira? Qualcuno dice che si aggiri ancora oggi nel Bosco delle Purghe in cerca di pace.

Rosella Reali

fonte:  https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia

Paolo Falconi, La bella Elvira. Toiano 1947: il delitto del Corpus Domini, il "giallo" di una storia vera di Paolo Falconi, CDL Libri, 2002.


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ROSELLA REALI
Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del VCO. Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. Mi piace cucinare e leggere gialli. Solo solare, sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me, non me ne separo mai. Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. 
Chi mi aiuterà? Ovviamente gli altri viaggiatori.
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? Un viaggio che spero non finisca mai...

domenica 9 dicembre 2018

le proteine della frutta


A cura del Prof. Armando D’Elia

Quando si parla di proteine qualificandole come uno dei cosiddetti principi alimentari, occorre sempre tener presente che tutti codesti principi partecipano assieme, alla sintesi della materia cellulare: deve prevalere, cioè una visione olistica, globale, “sinfonica”, in quanto tutti i nutrienti sono interdipendenti e tutti sono egualmente indispensabili. Si può essere certi che, viceversa una visione settoriale da luogo a valutazioni errate.

Del resto, tale interdipendenza è comprovata dal fatto che le proteine sono mal digerite in assenza di vitamine e che il loro metabolismo dipende da quello dei glucidi e dei lipidi, almeno in parte.

Questo ci fa pensare subito al nostro cibo naturale, la frutta, dove, appunto, la coesistenza ed interdipendenza dei diversi principi alimentari da luogo ad un complesso (fitocomplesso) armonioso che rappresenta, nel contempo, l’optimum anche dal punto di vista nutrizionale.

Abbiamo prima affermato che l’uomo della foresta, dove aveva vissuto per milioni di anni, dovette passare nella savana. Ora, nella foresta era fruttariano, mentre nella savana, difettando la frutta, dovette divenire carnivoro; forse l’organismo umano, adattandosi alla alimentazione carnea, assunse le caratteristiche anatomiche e fisiologiche tipiche dei carnivori? NO, conservò le caratteristiche del fruttariano ...



Oggi, infatti, dopo milioni di anni di innaturale alimentazione carnea, le nostre unghie non si sono trasformate in artigli, il nostro intestino non si è accorciato, i nostri canini non si sono allungati trasformandosi in zanne, il nostro succo gastrico non ha aumentato la sua originale e debole acidità tipica dei fruttariani, il fegato non ha esaltato la sua capacità antitossica, ne è scomparsa l’istintiva attrazione esercitata sull’uomo in età infantile dalla frutta e neppure è scomparsa la altrettanto istintiva repulsione esercitata dalla carne sul bambino appena svezzato. Tutti segni, questi, che le proteine eccessive che, assieme ad altre caratteristiche negative, sono presenti nella carne, pur provocando danni enormi, non sono riuscite a modificare la struttura fisiopsichica dell’uomo: ciò dimostra che l’alimentazione carnea è così estranea agli interessi nutrizionali e biologici dell’uomo che questi non riesce ad adattarvisi, pur subendo le pesanti conseguenze di un innaturale carnivorismo per lunghissimo tempo.

Partendo da queste e da altre considerazioni il prof. Alan Walker, antropologo della John Hopkins University, è giunto alla conclusione che la frutta non è soltanto il nostro cibo più importante, ma è l’unico al quale la specie umana è biologicamente adatta. Per comprovare tale affermazione, Walker ha studiato lungamente le stilature ed i segni lasciati, nei reperti fossili, sui denti, dato che ogni tipo di cibo lascia sui denti segni particolari; scoprì, così, che “ogni dente esaminato, appartenente agli ominidi che vissero nell’arco di tempo che va da 12 milioni di anni fa, sino alla comparsa dell’Homo erectus, presenta le striature tipiche dei mangiatori di frutta, senza eccezione alcuna”.

Istintivamente, quindi, i nostri progenitori mangiavano quello che la natura offriva loro, cioè la frutta matura, colorita, profumata, carnosa, dolce. Ed è facile immaginare che i nostri progenitori mangiassero la frutta spensieratamente, nulla sapendo (beati loro!) sulla quantità e sulla qualità di proteine contenute nella frutta, guidati unicamente dall’istinto… e se la passavano bene.

E’ chiaro che la frutta è il miglior cibo, del tutto naturale, per l’uomo e per l’intera sua vita, a cominciare dal momento in cui è in grado di masticare. Il fruttarismo dell’uomo è innato, perché sbocciato dall’istinto, che ripetiamolo – è l’espressione genuina, perfetta, indiscutibile dei bisogni fisiologici nutrizionali delle nostre cellule; esso si manifesta anche prima della fine della lattazione, reso evidente dalla appetibilità e anche dalla avidità con le quali il bambino ancora lattante assume succhi di frutta fresca, che possono sostituire in certi casi anche il latte materno (succo d’uva, per esempio, come suggeriva Giuseppe Tallarico, medico illuminato, nella sua opera maggiore “La vita degli alimenti”).

Abbiamo prima, accennato alla masticazione. Per masticare occorrono i denti ed i denti cominciano a nascere verso la fine della lattazione, cioè del periodo in cui l’accrescimento del cucciolo umano è affidato alla suzione della secrezione lattea delle ghiandole mammarie della madre. Domanda: perché al termine della lattazione (e anche prima) l’istinto ci orienta decisamente verso la frutta? La risposta è semplice: esiste una strettissima correlazione tra il latte, che è il primo nostro cibo, necessariamente liquido, e la frutta, cibo che succederà al latte e che ci accompagnerà, nutrendoci, per il resto della nostra vita.

Esiste, quindi, iscritta biologicamente nell’atto di nascita della nostra struttura anatomica e della nostra fisiologia, una “continuità nutrizionale tra il latte materno e la frutta”, per cui possiamo a giusto titolo considerare questi due alimenti i prototipi alimentari ancestrali dell’uomo.

Per dimostrare quanto conclusivamente è stato detto nel precedente ‘stelloncino’ sulla continuità nutrizionale tra il latte materno e la frutta, bisogna tenere presente quello che ripetutamente abbiamo già affermato e cioè:

1. All’uomo non si addicono cibi ad alto contenuto proteico, che risulterebbero dannosi alla sua salute;

2. l’uomo ha un fabbisogno singolarmente modesto di proteine, come è facilmente dimostrabile esaminando il latte materno.

Partiamo dall’argomento “latte materno”, che funzionerà da battistrada nella dimostrazione della sua continuità nutrizionale con la frutta. E’ noto che entro il sesto mese di vita extrauterina l’uomo giunge a raddoppiare il proprio peso e a triplicarlo entro il 12°, alimentandosi unicamente con il latte materno. Tutti i testi di chimica bromatologica e di fisiologia umana ci informano che il latte materno contiene l’1,2% di proteine. Ebbene, non è proprio così, in quanto, sino a 5 giorni dopo la nascita del figlio, il latte umano contiene il 2% di proteine e questa percentuale, a partire dal 6° giorno, comincia a calare progressivamente e lentamente sino a raggiungere, dopo 3-4 settimane, 1’1,3% e, dopo 7-8 settimane, 1′ 1,2%, percentuale che verrà poi mantenuta più o meno costante sino alla fine dell’allattamento.

Si constata, in sostanza, un evidente e regolare decremento del contenuto proteico del nostro unico “primo alimento” a misura che il neonato si avvia, con la comparsa progressiva dei denti, ad acquisire capacità masticatorie. Raggiunta tale capacità, ha termine quel periodo, dalla nascita allo svezzamento, che costituisce indubbiamente la fase anabolica più impegnativa, più intensa e più difficile dell’intera vita umana e che superiamo, come si è visto, con un cibo (il latte materno) contenente le modeste percentuali di proteine prima indicate.

Poiché la velocità di accrescimento è massima nei primissimi giorni di vita e poi via via decresce, è logico anche che la percentuale delle proteine contenute nel latte, e che costituiscono il necessario materiale di costruzione, debba seguire lo stesso andamento.

L’accrescimento ponderale dell’individuo continua, come si sa, anche dopo la comparsa dei denti, per terminare tra i 21 e 24 anni, ma con una velocità estremamente ridotta rispetto a quella del lattante.

E’ pertanto del tutto ovvio che l’alimento che subentrerà al latte materno dovrà avere una percentuale di proteine corrispondente ai reali bisogni di proteine dell’individuo non più lattante, in linea con la decrescenza, prima comprovata, di tali bisogni proteici. Riassumendo, “il fabbisogno proteico dell’uomo è massimo nel lattante, medio nell’adolescente, minimo nell’adulto”: questo ci dice il grande igienista Attilio Romano nel suo aureo lavoro “Pregiudizi ed errori in tema di alimentazione “; su questo insiste anche il prof. Alessandro Clerici nel suo Lavoro “Come si deve mangiare”. Occorre osservare:

Senza alcun dubbio spetta al medico tedesco Lahmann il merito di avere, da pioniere illuminato, gettato, nel campo della dietetica umana, le basi scientifiche del fruttarismo, avendo scoperto e dimostrato che esso costituisce la innata prosecuzione naturale dell’alimentazione lattea.
Ancora prima del Lahmann, un altro “grande”, Max Rubner, docente di cllnica medica all’Università di Berlino, aveva richiamato l’attenzione degli studiosi suoi contemporanei (e il Lahmann colse l’importanza di tale appello) sul fatto che “la scarsezza di proteine nel latte materno è un segno distintivo della specie umana che sconfessava i paladini dei regimi ricchi di proteine”.

Questa è la regola che vige in natura: destinare ai diversi esseri viventi cibi che contengano i principi alimentari indispensabili, ma solo nella quantità necessaria, che deve essere considerata l’optimum per l’individuo. Tanto è vero che non possiamo nutrire un neonato umano, il cui latte contiene 1′ 1,2% di proteine, con il latte per es. di mucca, che contiene il 3,5% di proteine senza determinati accorgimenti come la elementare diluizione, nel tentativo di evitare enteriti e altri malanni, anche gravi.

Il corpo umano, quindi, osserva proprio questa regola, cioè la cosiddetta “legge del minimo”, che a nostro parere potrebbe anche (e forse “meglio”) chiamarsi “legge dell’optimum” in quanto, se l’individuo ingerisce cibi contenenti dei nutrienti in quantità eccedenti il proprio fabbisogno, tale eccesso diviene per l’organismo una vera e propria scoria tossica ed il corpo cerca in tutte le maniere di sbarazzarsene, cosa che avviene in speciale modo per le proteine, come in precedenza s’è già detto.

Poiché la velocità di accrescimento dell’individuo non più lattante è decisamente inferiore a quella che aveva durante l’allattamento, è naturale ed ovvio che il contenuto proteico del primo cibo solido che l’uomo assume dopo lo svezzamento debba essere inferiore a quello del latte materno e da considerarsi l’optimum secondo la “legge del minimo”. Ciò, in armonia con il reale diminuito bisogno di proteine.

Ebbene, tale cibo non può essere che la frutta, che ha, appunto, in media, un contenuto proteico adeguato ai bisogni nutrizionali normali della fase successiva allo svezzamento:

cioè, mediamente inferiore a quella riscontrata nel latte materno che nel periodo terminale dell’allattamento si aggira attorno all’1,2%, come si disse.

A questo riguardo è interessante l’opinione del dottor Lovewisdom, uno dei più profondi studiosi dell’alimentazione naturale dell’uomo. Egli ci dice nel suo libro “L’adulto umano non ha bisogno di alimenti che contengono più dell’1% di proteine” “L’homme, le singe et le Paradis”. Del resto, una volta completato l’accrescimento, il nostro fabbisogno di proteine serve solo alla sostituzione delle cellule perdute per usura, cioè al semplice mantenimento dell’equilibrio metabolico e a tale scopo la frutta acquosa è più che sufficiente.



TUTTI I VEGETALI CONTENGONO PROTEINE


Tutti i vegetali, anche i più negletti e poco noti, contengono proteine, nessuno escluso: questo è un punto fermo, che occorre tenere sempre presente.

Diversi studiosi di vegetarismo sostengono essere sempre necessario integrare la frutta con altre parti tenere e succose di vegetali, sempre crude e fresche, sia pure in pasti separati, cioè con: radici (carota, rapa, sedano-rapa, barbabietola rossa), ricettacoli floreali e base delle brattee (carciofo), foglie, gambi e germogli (lattuga, cicoria, sedano, spinacio, cavoli di vario tipo), turioni (asparago, finocchio), infiorescenze e gambi (cavolfiore, broccoli di vario tipo), bulbi (cipolla), ecc. (tutti questi vegetali sono comunemente chiamati “ortaggi” in italiano, “légumes” in francese).

Elenchiamo ora i più comuni frutti carnosi con i relativi contenuti proteici, in percentuale e le percentuali di proteine presenti negli ortaggi più comuni, limitatamente a quelli che si possono utilizzare crudi:

FRUTTA
albicocca 0,8
anguria 0,9
arancia 0,9-1,3
avocado 2,6
banana 1,4
cetriolo 0,9
ciliegia 1,2
dattero 2,2
fico 1,5
fico d’India 0,8
fragola 0,95
kaki 1
lampone 1,4
limone 0,9
mandarino 1
mela 0,35
melone 1,3
mora 1
nespola 0,45
peperone 1,2
pera 0,6
pesca 0,7
pomodoro 1
prugna 0,8
uva 1-1,4
zucchina 1,5
media: 28,75/26 =1,1%

VERDURE
asparago 1,8
barbabietola 1,2
barbabietola rossa 1,6
cavolfiore 2,6
carciofo 2,4
carota 1,2
cicoria 1,6
cipolla 1,4
cavolo verza 3,3
cavolo rosso 1,9
finocchio 1,9
lattuga e simili 1,3
pastinaca 1,7
porro 2
ravanello 1
sedano (foglie/gambi) 1,3
sedano-rapa 1,5
spinacio 2,2
media: 31,9/18 = 1,78%

Sarebbe, a questo punto, errato fare conclusivamente la media aritmetica tra il contenuto proteico medio della frutta e quello degli ortaggi per ricavare direttive alimentari pratiche. 

Tale calcolo darebbe 1,44 [(1,1 + 1,78)/2] e sarebbe valido se la nostra alimentazione fosse costituita per il 50% da frutta e per il 50% da ortaggi. Occorre invece dare netta preponderanza alla frutta, che è il principe dei nostri alimenti perché fu il cibo primigenio dell’uomo, quello con il quale il corpo umano si è forgiato. Dando invece in giusta misura la prevalenza alla frutta, in media la carica proteica dei cibi che dovrebbero essere utilizzati dall’uomo si attesta su 1,3% circa. Tale percentuale è largamente sufficiente, anzi superiore (sempre in media, che è quel che conta) al fabbisogno dell’uomo, specie dopo il completamento dello sviluppo, cioè dopo il 24° anno di età. Del resto, ciò è comprovato dal fatto che i fruttariani non soffrono di alcuna carenza e non hanno problemi di salute. 

Naturalmente i risultati dei calcoli sopra riportati non sono da prendere, “alla virgola” o al centesimo, ma vogliono avere, ed hanno, un valore orientativo generale e soprattutto vogliono offrire, ed offrono, una prova della continuità nutrizionale tra il latte materno e la frutta. A proposito dell’ottimale validità nutrizionale del fruttarismo potremmo dilungarci a riportare autorevoli opinioni, altri fatti, altre argomentazioni scientifiche per dimostrare tale validità, che garantisce all’uomo fruttariano il godimento di una piena salute fisio-psichica: ma su tutto l’abbondante apporto probatorio che così raccoglieremmo dominerebbe la prova-base, la più incontestabile, già da noi prima evocata, ma che tuttavia torniamo ad evocare: nella foresta, patria originaria dell’uomo, questi visse in perfetta salute, sugli alberi fruttiferi, per milioni di anni, alimentandosi di frutta e – sostengono ipoteticamente alcuni studiosi, come Lovewisdom – anche di altre parti tenere di vegetali.

Molto probabilmente il lettore si chiederà che bisogno c’è di dimostrare che la carica proteica del latte materno è la stessa (o presso a poco) non solo di quella della frutta, ma anche quella dei cosiddetti ortaggi. Non s’è detto che l’uomo preistorico viveva sugli alberi fruttiferi nutrendosi solo di frutta?

Insomma, la sola frutta è sufficiente o no ad alimentare l’uomo? Cerchiamo di rispondere qui di seguito a tali interrogativi.

Si è già accennato in precedenza che secondo alcuni studiosi la frutta andrebbe integrata con altre parti tenere e succose di vegetali; condividiamo tale opinione, ma Poichè condividiamo anche la tesi di Cornei, Tallarico, Carquè, ecc., che cioè i nostri più antichi progenitori arboricoli si nutrivano “solo” di frutta, siamo tenuti a spiegare questa nostra apparente contraddizione.

Anzitutto, la frutta che i primi uomini mangiavano da arboricoli nella foresta intertropicale era, in quanto a capacità nutrizionale, enormemente superiore a quella di oggi esistente. La frutta d’oggi è infatti il risultato di migliaia di anni di frutticoltura che, dovendo commerciare con i prodotti della terra, lo fa utilizzando dei criteri di produzione della frutta basati su:

- rendimento della pianta
- colore
- taglia
- gusto
- struttura
- conservabilità
- facilità di raccolta
- sicurezza e continuo incremento del profitto.

Insomma la produzione odierna di frutta è profondamente artificiosa, mentre la frutta che nutriva l’uomo preistorico era il prodotto del libero giuoco delle forze vitali dell’aria, del suolo, delle arcane forze della natura, era figlia della luce, scrigno di energia solare, viva e vitalizzante, non cresciuta sotto lo stimolo anormale dei concimi chimici, dei diserbanti, degli anticrittogamici, i cui residui rendono oggi talora la frutta financo pericolosa per la nostra salute. c’è un abisso, dunque, tra la frutta che nutrì i primi uomini e la frutta d’oggi. L’uomo odierno a dire il vero comincia a rendersi conto che la frutta nutre poco e male e ha perduto i sapori della frutta “antica” di cui si sente la mancanza. Ed ecco sorgere, allora, iniziative tipo “archeologia dell’albero da frutta”, “banche del seme”, e soprattutto coltivazioni biologiche. Un esempio: la pera cosiddetta “spina” è la “pera antica”, bitorzoluta, contorta, decisamente brutta se guardala con l’occhio dell’esteta tradizionalista per il quale la pera, quella addomesticata, deve avere la forma classica e basta. In Italia di alberi di pere “spina” ne restano ormai pochi, destinati a sparire perché la gente vuole pere “belle” di parvenza e non nodose e brutte: anche se poi chi le assaggia rimane estasiato per il loro sapore, ormai non più riscontrabile nelle pere “moderne”, frutto di cultivar, incroci, innesti, manipolazioni genetiche, fitonnoni, ecc.. Lo stesso discorso vale per molte varietà di mele in via di scomparsa, come le mele “zitelle”, per esempio.

Deciso scadimento quindi, del valore nutrizionale della frutta moderna nei riguardi della frutta “antica” e quando diciamo “antica” ci riferiamo appena ad un secolo fa o già di là; ma a misura che andiamo a ritroso nel tempo la differenza si fa, ovviamente, sempre più marcata, tanto che riesce difficile solo immaginare quale potenza nutrizionale riservasse la frutta che servì alla nutrizione e alla crescita delle primissime generazioni dell’uomo arboricolo e fruttariano.

Abbiamo detto sopra che la gente ha cominciato a capire che la frutta odierna, nonostante che continuiamo ad essere da essa attratti, non solo nutre poco ma nutre anche male. Qui appresso spieghiamo perché.

Per effetto dei trattamenti e delle selezioni che l’uomo, come abbiamo prima accennato, applica in agricoltura e particolarmente in frutticoltura, la frutta prodotta è caratterizzata soprattutto da un eccessivo tenore di zuccheri.

Ora, è vero che il nostro organismo funziona proprio grazie allo zucchero, ma è anche vero che lo zucchero, come qualsiasi altro alimento, per essere assimilato, deve trovarsi associato con vitamine, specialmente quelle del gruppo B, minerali, aminoacidi ed altri elementi nutritivi, con i quali costituisce un fitocomplesso equilibrato ed armonico.

L’eccesso di zucchero oggi riscontrabile nella frutta crea invece squilibrio e disarmonia, per cui l’organismo non è in grado di utilizzare tutto lo zucchero presente nella frutta: ecco perché si disse che la frutta d’oggigiorno fa correre il rischio di nutrire “anche male”. Come ovviare a questo squilibrio? Includendo nella nostra dieta una consistente quantità di alimenti non zuccherati, in particolare verdure crude ed ortaggi vari, che forniscono in abbondanza vitamine, minerali ed aminoacidi essenziali, indispensabili per ottenere una nutrizione equilibrata.

L’aggiungere verdure ed ortaggi alla frutta, anche se questa rimarrà quantitativamente preponderante, è, quindi, un “correttivo”? Certamente, è un utile correttivo. Naturalmente, sia la frutta che le verdure e gli ortaggi, per conservare la loro efficacia nutrizionale, devono essere consumati crudi ed è anche buona norma utilizzarli in pasti separati. Ma aggiungiamo subito che si tratta di un correttivo “temporaneo” e qui di seguito spieghiamo perché diciamo che è temporaneo.

Abbiamo visto – riassumiamo – che la frutta odierna, rispetto alla frutta che nutrì l’uomo preistorico, difetta di potere nutrizionale (e si cerca nell’attuale processo, in atto, di riavvicinamento alla natura, di coltivarla biologicamente, come rimedio primo), ma eccede, invece, in contenuto di zuccheri (glucosio/fruttosio) (e si cerca di ovviarvi proponendo di accompagnarne il consumo con ortaggi, che potranno, così, partecipare all’approvvigionamento di proteine). Poiché, come è evidente, si tratta di una situazione, quella attuale, “in movimento”, a misura che progredirà l’agricoltura biologica, migliorerà anche la qualità della frutta attuale, i cui lati negativi (eccessi e difetti sopracitati) si attenueranno gradualmente e alla fine scompariranno.

Ovviamente, quando la frutta riacquisterà totalmente le caratteristiche che permisero il pieno affermarsi dell’uomo preistorico arboricolo e fruttariano, cesserà il bisogno o la semplice convenienza di ricorrere agli ortaggi e l’uomo tornerà ad essere fruttariano al 100% e sarà quello un grande giorno, che riteniamo non troppo lontano, dato l’incoraggiante crescente interesse per questo così importante problema.

Fonte: www.fruttariani.it

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

sabato 8 dicembre 2018

soldi e potere: è antica la guerra alla medicina naturale

In questi tempi c’è una guerra dichiarata tra la medicina naturale e quella ufficiale, che evidenzia le falle di quest’ultima mettendone in risalto i limiti palesi (basti pensare che nonostante le spese immense per la ricerca sui tumori, questa malattia sta aumentando vertiginosamente) e la medicina tradizionale allopatica, che schiera dalla sua parte i vari soloni a colpi di radiazione dei medici eretici. Recenti sono i casi di Gabriella Mereu, di Tullio Simoncini, di Ryke Geerd Hamer, di Paolo Rege-Gianas. Pochi giorni fa è stata radiata dall’ordine la dottoressa Gabriella Lesmo, rea di aver preso posizione contro i vaccini (settore che ha iniziato a studiare con particolare attenzione per via del fatto di avere un figlio reso autistico proprio a seguito della somministrazione di vaccini). Pochi mesi prima era stato radiato per lo stesso motivo un altro medico, Dario Miedico. E sempre recentemente è stato radiato dall’ordine Paolo Rossaro, per aver prescritto una cura alternativa alla chemioterapia in un caso di tumore. In realtà, la lotta tra medicina naturale e medicina tradizionale ufficiale esiste da secoli, e può individuarsi il punto di origine nel Medioevo, ad opera dapprima della Chiesa cattolica, e successivamente ad opera della scienza ufficiale, che ha preso il testimone dell’oscurantismo cattolico. Vediamo come e perché nasce questa battaglia, e perché essa è identica ai giorni nostri, come nel Medioevo, e in tutti i secoli intermedi.
La medicina prima di Cristo. Alcuni millenni prima di Cristo, per essere “medici” occorreva prima di tutto essere degli iniziati e aver fatto un percorso spirituale. Solo per fare due esempi, Galeno era un iniziato formato anche alla scuola TeschioPlatonica, e Ippocrate anche era iniziato ai misteri egizi (nonostante sia considerato, a torto, il padre della medicina razionale). Questo perché, prima di curare le persone, occorreva curare se stessi, e aver fatto un percorso spirituale. Spiritualità, magia e medicina, infatti, andavano di pari passo non perché – come ci raccontano oggi – a quel tempo fossero dei primitivi, ma perché era ben chiaro che per fare il medico dovevi prima aver curato te stesso, essere in grado di percepire le “aure”, e intervenire sui “corpi sottili” e sull’anima del paziente. Era quindi fondamentale l’alimentazione, ad esempio, per riportare in equilibrio il corpo ma anche per poter operare i trattamenti energetici (tanto è vero che risale ad Ippocrate la famosa frase: «Noi siamo quello che mangiamo, fate che il cibo sia la vostra medicina»). Il medico cioè era un mago, ma soprattutto una persona spirituale. E occorre ricordare che la magia non è nient’altro che la scienza della natura, e la conoscenza delle leggi naturali.
Questo assunto era chiaro anche in Oriente, e non è stato mai messo in discussione, neanche oggi, tanto è vero che anche adesso in Cina esiste una “medicina tradizionale cinese” contrapposta a quella non tradizionale che è importata dall’Occidente; abbiamo in Tibet la medicina tradizionale tibetana e in India la medicina Ayurvedica. Un medico tradizionale cinese è in grado di diagnosticare qualunque malattia ad un solo colpo d’occhio. Queste tre medicine sono accomunate, pur nella loro diversità, dal principio di base che il corpo è un tutto unico e va curato nel suo complesso, essendo errato accentrarsi solo sul sintomo. In Oriente poi non esiste il concetto di magia, perché lo studio della natura e delle sue leggi sono un presupposto naturale dello studio di qualsiasi altra cosa. Ai tempi di Cristo esistevano gli Esseni, detti anche Terapeuti, perché avevano particolari doti curative. Cristo, che veniva dalla tradizione essena, curava i malati, come li curavano i suoi discepoli. Ma la cura della persona veniva dopo che il discepolo aveva fatto un percorso spirituale. E’ solo la tradizione cattolica che ha trasformato queste cure in Simon Mago“miracoli”, possibili solo per i cristiani; poi la scienza, successivamente, ha trasformato questi “miracoli” in una cosa da ciarlatani. In realtà i miracoli operati dagli apostoli erano nient’altro che il riflesso della loro conoscenza delle leggi naturali.
Non esistevano, ovviamente, leggi che imponessero percorsi obbligati per i medici e, in teoria, chiunque poteva curare i malati. Anche perché, dal punto di vista teorico, il problema della professione medica era semplice: chi riusciva a guarire gli altri era un bravo medico; chi non curava nessuno non poteva dirsi tale. Da sempre però sono esistiti medici ciarlatani, che non guarivano le persone ma somministravano farmaci dannosi senza discernimento, solo per soldi. Non per niente nel giuramento di Ippocrate, che in teoria i medici dovrebbero onorare ancora oggi, c’è scritto: «Non darò, chiunque me lo chieda, un farmaco omicida, né prenderò iniziativa di simile suggerimento». In un passo degli Atti degli Apostoli, invece, si narra che Simon Mago chiese a Pietro e agli altri apostoli che gli spiegasse il loro segreto per curare i malati, ma Pietro rifiutò, perché il suo era un dono di Dio (acquisito cioè grazie a un percorso spirituale) e non poteva essere venduto per denaro. In altre parole, in questo periodo era netta l’identificazione del medico con l’iniziato alla spiritualità. I ciarlatani esistevano, ma erano tenuti ben distinti dai veri medici, ed era facile effettuare tale distinzione: era sufficiente vedere chi era in grado di curare e chi no.
La medicina da Cristo al medioevo. Negli anni immediatamente successivi alla nascita del Cristianesimo, a Roma come in Oriente, la medicina non era regolamentata e in teoria chiunque poteva professarsi medico. Roma era però carente di bravi medici e in genere li faceva venire dalla Grecia; il motivo era che, in Grecia, ancora si praticavano i cosiddetti “misteri” ed esistevano veri iniziati, che a Roma erano sempre meno, a causa della totale mancanza di spiritualità del potere romano. Dal momento che anche un falegname o un ciabattino poteva curare la gente, e diventare medico senza alcuna garanzia della sua formazione, la situazione era ovviamente caotica e non c’era alcuna certezza che un medico sapesse curare davvero i malati; tanto che Galeno, nel II secolo d.C., già lamenta la situazione generale della medicina. Seneca descrive gli orrori di alcuni Galenomedici che praticavano operazioni altamente invasive, creando più danni che benefici. Molti medici si arricchivano. Alcuni, quando erano dei truffatori, talvolta venivano puniti dalla legge.
Il rapporto tra medicina e spiritualità è comunque ben attestato dal fatto che alcuni ospedali sorgevano presso i templi; nel 300 a.C. ad esempio, sorse una sorta di ospedale sull’Isola Tiberina, che era un tempio dedicato ad Esculapio; il che attesta il legame spiritualità-medicina. Purtroppo però la Chiesa cattolica, nel tentativo di imporsi come unica via spirituale per la salvezza dell’individuo, in questo periodo iniziò a imporre le sue regole, anche nel settore medico (che, come abbiamo detto, era strettamente connesso a quello spirituale). Le guarigioni vennero chiamate miracoli, e i miracoli potevano essere fatti solo da cristiani; se qualcuno guariva senza essere cristiano, le guarigioni erano opera del diavolo. Da questo momento si pongono le basi per distruggere la medicina e impedirne il progresso, anziché favorirlo. Il potere, cioè, inizia a dettare le sue regole anche nella cura dei malati e tali leggi possono essere imposte pure da chi di medicina non sa nulla, non avendo fatto alcun percorso spirituale.
La medicina nel Medioevo e nei secoli successivi. Nei secoli immediatamente successivi all’affermazione del Cristianesimo, in Occidente la guerra alla spiritualità trova il suo culmine nello sterminio dei Catari e nello scioglimento dei Templari, con la messa al rogo di alcuni di essi. I percorsi spirituali quindi possono essere svolti a partire dal 1300 solo da iniziati, nel segreto delle confraternite. Inizia allora a dividersi sempre di più la spiritualità dalla medicina. E’ in questo periodo che nascono le prime università di medicina e che prende avvio l’idea (trasfusa poi in leggi varie nei secoli successivi) che la medicina dovesse essere appannaggio solo di chi l’aveva studiata seriamente. L’idea di fondo era buona, e lo rimane ancora oggi: per essere medico bisogna studiare. Il problema però di questa impostazione è duplice. Innanzitutto per “studio”, non si intende più il percorso spirituale e/o l’iniziazione ai misteri, ma si intende lo studio, spesso mnemonico, dei testi di medicina. In secondo luogo non è più necessario fare un percorso spirituale al fine di curare i malati. Si spezza quindi il legame Ippocratetra mente e medicina, tra spirito e guarigione, e quello tra anima e corpo, nonchè quello tra corpo e natura: in definitiva, viene definitivamente espulsa la spiritualità dalla guarigione.
Nel 1300 circa viene istituita la facoltà di medicina a Roma ad opera di Bonifacio VIII. A Bologna, a quanto pare, esistevano dei corsi di medicina già fin dall’anno 1000, ma è solo nella metà del 1500 che viene istituito un vero e proprio corso di laurea. Nelle università lo studio mnemonico delle opere di Galeno e di Ippocrate valeva molto più delle capacità spirituali della persona, come quella di vedere “l’aura” e di operare sui “corpi sottili”, o di sperimentare nuovi farmaci estratti da piante sconosciute all’epoca. Ma studiare Galeno e Ippocrate, avulsi dal percorso spirituale che veniva fatto, equivale a non capire nulla dell’essenza del loro insegnamento. Un po’ come se uno volesse fare un percorso spirituale solo leggendo i libri di Yogananda, seduto sulla poltrona di casa. Coloro che curavano le persone, senza essere medici, venivano spesso guardati con sospetto e, se avevano poteri di guarigione ed erano sfortunatamente anche donne, venivano messe al rogo come streghe (le streghe spesso non erano altro che donne esperte in erboristica e nel curare i “corpi sottili”). Basti pensare che una delle accuse che si muovevano ad alcune streghe era quella di aver aiutato delle partorienti, contravvenendo al comandamento divino secondo cui la donna avrebbe dovuto partorire con dolore.
In altre parole, inizia a essere sempre più diffuso l’atteggiamento per cui una laurea in medicina prevale sulla effettiva capacità di curare. Mentre, parallelamente, coloro che curavano davvero i malati erano guardati con sospetto perché andavano a interferire con gli interessi di chi, sulla medicina, lucrava. In generale, comunque, i migliori medici e chirurghi erano ancora iniziati, tanto è vero che le cronache narrano di come le lezioni di Paracelso all’università fossero affollate di studenti, che disertavano quelle degli altri medici, con sommo dispiacere di questi ultimi. A partire dal 1500, con la sempre maggiore diffusione delle università, queste iniziano a rivendicare a se stesse il primato nella cura delle malattie. Gli studi si settorializzano sempre più, nascono le varie specializzazioni, e si perde di vista l’unità complessiva del paziente. Anche se molti Paracelsoprofessori famosi erano davvero iniziati, in realtà la frequentazione di una facoltà di medicina non garantiva affatto, da parte dei frequentanti, una reale preparazione alla cura delle malattie.
La situazione, se prima del Medioevo non era affatto felice, inizia addirittura a peggiorare anche perché iniziano le prime commistioni tra la medicina e il denaro. Molti medici infatti guadagnavano nel vendere erbe e pozioni, e iniziano a nascere le prime botteghe che fabbricano prodotti curativi in base alle erbe. E’ noto ad esempio che Paracelso, che prese posizione contro alcuni medici ciarlatani dell’epoca (siamo attorno al 1500) e che propose di istituire dei controlli da parte dell’autorità sugli speziali e i farmacisti e sui preparati da loro venduti, subì un processo, in cui il medico che doveva giudicare la questione era anche legato ad un grosso produttore di medicinali. Ora come allora, cioè, interessi economici, questioni di prestigio personale, ottusità e ignoranza, si intrecciavano in modo profondo, e finì che Paracelso fu condannato, i sui scritti vietati e gli fu impedito di esercitare a Norimberga. Il medico che doveva valutare le opere di Paracelso si chiamava Stromer ed era professore di medicina all’università di Lipsia, ma anche azionista di una società di proprietà della famiglia Fugger, una potente famiglia di banchieri che aveva interessi anche nella produzione di medicinali. Una commistione tra banche e case farmaceutiche, cioè, valida ancora oggi.
I più grandi medici dei secoli successivi, quindi, sono tutti iniziati, esoteristi e maghi, generalmente Rosacroce. Non a caso, i Rosacroce hanno, tra le dieci regole del loro statuto, quello di “curare gli ammalati senza compenso”. In altre parole, mentre la medicina ufficiale persegue interessi economici e personali, i Rosacroce continuano a perseguire obiettivi spirituali, curando senza compenso. Ildegarda di Bingen, che viene ricordata principalmente come una mistica, era in realtà anche una vera e propria naturopata esperta in erbe curative; ed era, ovviamente, una Rosacroce. Paracelso era un iniziato e un mago, oltre che un medico, e aveva una profonda spiritualità testimoniata nelle sue opere. Jacob Böhme, uno dei precursori dei Rosacroce, non era un medico, bensì un mistico, ma aveva il dono della guarigione. Leonardo da Vinci e Michelangelo, anch’essi Jacob BöhmeRosacroce, erano esperti di anatomia. Robert Fludd era un medico famoso, e un Rosacroce, oltre che massone. Più di recente, anche Luis Pasteur, l’inventore dei vaccini, era un massone, dunque un iniziato.
Questi sono solo alcuni dei nomi. Ma se si fa una ricerca sui nomi di medici famosi, risulta che quasi sempre erano anche maghi ed esoteristi. Non a caso. Tra tutti i personaggi famosi possiamo poi citare Rudolf Steiner, che senza essere un medico fonda la medicina antroposofica, gettando le basi per una branca della medicina che tutt’oggi annovera tra le sue fila molti medici. Steiner non era né un medico, né un mago in senso stretto, ma un Rosacroce, molto evoluto spiritualmente, il quale, non a caso, insisteva molto sul fatto che il medico dovesse essere anche esperto di energie sottili ed essere capace di vedere l’aura. Ancora oggi, le cliniche in cui si pratica la medicina antroposofica, come la Lukas Klinic di Basilea, sono all’avanguardia nella cura di certe malattie come i tumori. Dal Medioevo, quindi, inizia il distacco tra la medicina e l’iniziazione. E comincia ad essere difficile distinguere i ciarlatani dai veri medici, in quanto la Chiesa prima e le università poi, si erano arrogate il potere di farlo. Si era medici, cioè, non perché si curava, ma perché il potere rivendica la facoltà di distinguere chi avesse il diritto di curare e chi no. Esattamente come oggi.
La medicina dall’800 ai giorni nostri. Nell’800 le università si settorializzano e specializzano sempre di più, e il mondo della cura delle malattie inizia ad assumere la fisionomia che ha adesso. La medicina ufficiale, sempre più specializzata, prende sempre di più le distanze dal paziente inteso come un tutto unico, mentre la medicina naturale vien talvolta portata avanti nel segreto delle confraternite (si pensi, ad esempio alla fratellanza di Miriam, fondata da Giuliano Kremmerz, che ad oggi conta migliaia di seguaci, anche tra i medici stessi). I Rosacroce, sia nella loro forma originale, sia in quella deviata, non solo curano i malati senza compenso, ma tentano anche di infiltrare la medicina ufficiale per reindirizzarla a fini spirituali, cosa che fanno ancor oggi. Occasionalmente alcuni medici ufficiali fanno parte della confraternita, ma in generale continua ad esserci un netto distacco tra i due tipi di medicina: quella vera, di chi cura veramente, e quella degli incompetenti. La Giuliano Kremmerzsituazione è ben esplicata in un romanzo di fine ’800, “La vita eterna” di Marie Corelli, dove uno dei personaggi, volendo guarire davvero da una malattia grave, si rivolge a naturopati, e cura molto l’alimentazione e la pratica spirituale, rifiutando le cure mediche ufficiali, a suo dire soltanto dannose.
La medicina ufficiale, cioè, viene vista come un fenomeno interessato soli ai soldi, e non alla salute del paziente; uno spaccato della medicina di allora, che era esattamente come oggi, ed esattamente come nel 1500 di Paracelso. Decisivo, al fine di inquinare definitivamente la pratica medica e allontanarla dalla spiritualità e dalla natura, è la nascita degli ordini professionali, che in Italia sono disciplinati con legge a partire dal dopoguerra. In teoria gli ordini professionali dovrebbero garantire la serietà e la correttezza nell’esercizio delle varie professioni; ma purtroppo non c’è alcuna garanzia che i membri e i presidenti di questi ordini siano veramente iniziati ed esperti nella professione da loro esercitata (spesso infatti tale garanzia è data solo dall’essere in possesso di una laurea; laurea che, come abbiamo visto, garantisce solo una preparazione settoriale). Gli interessi economici e personali fanno quindi sì che gli ordini dei medici tengano più al mantenimento del loro status quo professionale e finanziario, che non alla salute del paziente e alla ricerca.
Dalla fine dell’800 in poi il distacco tra iniziazione e percorso spirituale, e medicina, diventa definitivo. Il medico è tale se ha un pezzo di carta che attesta che ha fatto degli studi (e chi se ne frega poi se ha preso la laurea col minimo dei voti, senza interesse, e se ignora completamente alimentazione, erbe e tutto ciò che riguarda la prevenzione). Inizia ad essere completamente assente la formazione spirituale, e si perde il contatto con la parte divina dell’essere umano, che viene visto solo come un corpo materiale che reagisce meccanicamente agli stimoli. Le statistiche confermano quanto appena detto. Se prendiamo il tumore, uno dei mali più gravi del nostro secolo, possiamo constatare che anziché diminuire, aumenta sempre di più, evidenziando che qualcosa non torna nel modo di intendere la medicina oggi. I paesi nel mondo dove i tumori sono meno diffusi sono alcuni paesi dell’Africa, dove – in teoria – la medicina dovrebbe essere più arretrata (Botswana, Niger, Namibia, Eritrea). Mentre i paesi dove la percentuale è più alta sono proprio quelli in cui, teoricamente, la medicina è più avanzata (Italia, FranciaUsa e Giappone sono quelli col tasso più alto di mortalità).
La situazione attuale, dunque, non è diversa da quella che è sempre esistita nei secoli. I veri medici, erano quelli che curavano le persone, ma non necessariamente la cura delle persone coincideva, e coincide ancora oggi, con l’avere una laurea in medicina. In generale, il medico dovrebbe dirsi tale quando conosce non sono la medicina ufficiale insegnata nelle università, ma anche le altre tradizioni (cinese, ayurvedica, ecc.). E dovrebbe essere competente non solo in materia di farmaci, ma anche in materia di alimentazione, erbe, e tecniche di ogni tipo. Ciò non avviene, però, a causa di due fattori: i soldi e la settorializzazione. I soldi: la ricerca medica è finanziata dalle università, o dalle case farmaceutiche; è assolutamente logico quindi che i soldi delle case farmaceutiche vengano investiti in ricerche per farmaci che possano garantire un profitto, e Louis Pasteurvengano trascurate proprio quelle che invece potrebbero diminuire tali profitti (come il ricorso a rimedi erboristici, o a trattamenti complementari come agopuntura e Shiatsu).
La settorializzazione degli studi specialistici, che ha fatto perdere di vista il trattamento globale del paziente (la cosiddetta visione olistica) e ha staccato completamente lo studio della medicina dal percorso spirituale di un individuo. Così, oggi, si arriva al paradosso che la laurea in medicina non prevede, se non come complementare, lo studio dell’alimentazione, e sia totalmente assente lo studio dei rapporti tra mente e medicina (vedi ad esempio il bellissimo libro “La mente supera la medicina” di Lissa Rainkin). Quando i poteri economici che ruotano attorno alla medicina si trovano ai ferri corti, reagiscono a colpi di leggi e di provvedimenti penali o disciplinari. Così, anni fa, venne resa obbligatoria la laurea in medicina per poter esercitare l’agopuntura, dando così un colpo mortale a questa disciplina millenaria proveniente dalla Cina. Talvolta per legge si impongono determinate quantità o qualità di un prodotto naturale troppo efficace, come è avvenuto per l’iperico o per la canapa. Anni fa alcuni parlamentari presentarono proposte di legge in materia di Shiatsu (un particolare tipo di digitopressione che si basa sugli stessi principi fondanti dell’agopuntura, ma invece di usare aghi utilizza le dita), mentre contemporaneamente la Guardia di Finanza faceva controlli a tappeto sugli operatori di questa disciplina. In quel caso fu sufficiente, per alcuni operatori, rinominare la loro attività “digitopressione” e prepararsi, in caso di emanazione di una legge ad hoc, a rinominare la loro attività, per scoraggiare il governo da un’iniziativa cosi demenziale.
Nel frattempo si sviluppa in modo sotterraneo lo studio e lo sviluppo della medicina naturale, chiamata spesso anche – erroneamente – “alternativa”; in realtà ad essere alternativa è la medicina ufficiale, perché essa sostituisce ai rimedi naturali, che dovrebbero essere sempre preferiti come prima scelta, i rimedi artificiali della medicina allopatica. E a confermare lo stretto rapporto esistente tra la spiritualità e la medicina, c’è un curioso fenomeno che pochi hanno notato. La medicina naturale è riconosciuta e praticata liberamente in molte zone del mondo e, non a caso, se prendiamo come epicentro Roma, che è stato il fulcro, nei secoli, del tentativo di distruggere la spiritualità e la libertà di pensiero, man mano che ci si allontana dall’Italia la medicina naturale è sempre più diffusa. Da noi il servizio pubblico riconosce solo la medicina ufficiale, e per giunta solo per alcune cure (la terapia Di Bella, ad esempio, pur essendo praticata da medici ufficiali, non ottiene Luigi Di Bellariconoscimento negli ospedali) e ignora totalmente il fenomeno della medicina naturale, sì che, in teoria, chiunque può definirsi naturopata (un po’ come nell’antica Roma).
Avendo Roma come epicentro, in Italia la situazione è una delle peggiori al mondo. In Francia esiste una situazione simile alla nostra, mentre in Inghilterra esistono associazioni professionali che garantiscono la serietà della pratica della naturopatia. In Germania il servizio pubblico garantisce il ricorso alla naturopatia, prevedendo un apposito percorso formativo per i naturopati, ove la naturopatia è riconosciuta per legge e viene considerata alla stessa stregua e dignità della medicina ufficiale. La stessa cosa avviene in molti paesi europei dove è possibile curarsi tramite il servizio pubblico anche con l’omeopatia e altre discipline naturali (ad esempio in Olanda, in Danimarca e in Norvegia). Negli Usa, il percorso formativo del medico naturale è garantito da un corso di 4 anni, in cui i primi due anni sono simili a quelli della facoltà di medicina per programma di studi. E i più importanti testi di medicina naturale, intesa come disciplina di studio scientifico, vengono proprio dagli Usa (come l’Enciclopedia della medicina naturale di Murray e Pizzorno, o i testi di metamedicina di Claudia Rainville). Ogni stato ha legislazioni differenti, ma in linea di massima occorre superare degli esami di stato ad hoc per poter praticare la medicina naturale. In India, e nella maggior parte dei paesi orientali, esistono Shiatsudiverse “medicine”, perché è quella occidentale che si è venuta a sostituire a quella naturale tradizionale; e molti medici si formano con percorsi universitari simili ai nostri, accanto al percorso tradizionale in medicina naturale.
In sostanza, l’Italia è il peggior paese del mondo per quanto riguarda la medicina naturale, ed è anche logico che, per tradizione culturale, sia quella che osteggia maggiormente tutti coloro che provano a svolgere la loro professione medica in modo difforme da quanto viene imposto dalle case farmaceutiche. Non a caso molti dei nostri medici, radiati in italia (Tullio Simoncini, ad esempio) o i cui studi vengono ignorati, trovano riconoscimento all’estero (la terapia Di Bella, all’estero, è oggetto di studi scientifici che ne hanno comprovato l’efficacia). La situazione, insomma, è identica a quella dell’800. Si è perso completamente di vista il percorso spirituale nella formazione del medico, che oggi è tale solo per aver studiato a memoria una serie di libri su anatomia, farmaci, e malattie. Si trascura l’alimentazione, la prevenzione, lo studio delle energie e dei corpi sottili, ritenuti materie da ciarlatani new age con la fissa dell’Oriente, si trascura la comparazione con altre tradizioni mediche, e c’è quindi una netta scissione tra medicina naturale e medicina allopatica ufficiale.
Conclusioni. Nonostante i tentativi da parte di alcuni poteri di distruggere la medicina naturale e far prevalere gli interessi economici sulla salute dei pazienti, e nonostante la maggior parte della gente parta dal preconcetto che cura dei malati = medico = laureato in medicina, occorre ricordare che la laurea in medicina è solo uno dei tanti requisiti che si devono avere per poter curare, e neanche il più importante. Per quanto gli ordini professionali o la magistratura possano infliggere condanne e radiazioni, ciò toglie la possibilità di esercitare la “professione di medico”, ma non la cura dei pazienti per mezzo di altre forme né la ricerca nell’ambito della medicina naturale. Per giunta, radiazioni e condanne non tolgono valore alla laurea Naturopatiain medicina, che può essere esercitata in qualunque altro stato nel mondo. Oggi come ieri, una radiazione ha lo stesso valore che avevano le condanne per Paracelso: il medico si trasferiva altrove, ed altrove continuava i suoi studi, le sue ricerche e le sue attività di cura. Oppure, semplicemente, cambiava nome alla sua professione lasciando inalterata la sostanza.
Gli interessi economici prevarranno sempre sulla salute e la cura del paziente, ma sta ai singoli medici studiare coscienziosamente e integrare la medicina ufficiale con quella naturale, per sommare i benefici di entrambi. E sta al singolo paziente trovare il medico più adatto a se stesso, e discernere quelli che lo fanno con amore da quelli che lo fanno per soldi. Personalmente, i migliori medici che ho conosciuto erano tutti o iniziati, o comunque esperti anche di medicina orientale. Il migliore medico che abbia mai conosciuto è un’anestesista rianimatore in un ospedale pubblico che ha il dono di fare diagnosi sempre molto precise; in realtà questo medico è anche una veggente molto brava, e la sua bravura nasce da una commistione dei suoi poteri con la preparazione universitaria; viene anche da una tradizione di streghe ed è una strega ella stessa. Penso che un giorno sarà costretta ad abbandonare la medicina ufficiale, per intraprendere una personale strada che unisca più approcci, fondendoli in un metodo personale.
Un altro medico molto bravo, che non a caso studia a livello scientifico gli effetti dell’aloe nella cura del tumore, è un massone, un iniziato, che nella sua vita ha studiato di tutto, dalla medicina orientale a quella africana; come Paracelso, aveva girato il Paolo Franceschettimondo per studiare personalmente da vicino altri tipi di medicina; si definisce naturopata (pur essendo un professore universitario) e un giorno che gli chiesi se credeva nella magia, mi disse: «Non è che hai un registratore, vero? Perché se esce fuori quello che penso davvero, sono rovinato». Approfondendo la letteratura medica non ufficiale, ci si imbatte in medici che hanno scritto libri straordinari, come Rüdiger Dahlke e Thorwald Dethlefsen (autori di “Il destino come scelta”; “Malattia come simbolo”; “Malattia e destino”). Medici, sì, ma anche probabilmente dei Rosacroce, perché quando si leggono alcune loro opere minori, come un libro di mandala da colorare, si scopre che i medici sono anche esperti di esoterismo e simbologia. Degli iniziati, quindi, altamente spirituali nel loro percorso di formazione. Come sempre è stato e sempre sarà. Quando ci si domanda come siamo potuti arrivare a questa situazione, quindi, non è tanto la risposta ad essere giusta o meno. E’ la domanda stessa ad essere sbagliata, perché la situazione della medicina rispecchia quella di qualsiasi altro campo: è una guerra tra forze spirituali e forze anti spirituali; tra materia e denaro, e anima; tra ignoranza ed evoluzione; tra biechi interessi materiali, e interessi per la persona e la sua salute. Ma è una guerra che, cambiando forme, modalità, e ampiezza, caratterizza tutta la storia della medicina.
(Paolo Franceschetti, “Medicina alternativa e medicina naturale: la storia”, dal blog “Petali di Loto” del 12 aprile 2018).

fonte: http://www.libreidee.org/