Si racconta spesso di estinzioni anche recenti di specie animali che per un motivo o per l’altro sono diventate famose, solitamente ubicate in luoghi esotici e lontani, primo fra tutti il Dodo delle Mauritius. In realtà anche in Europa non è che siamo stati proprio con le mani in mano, anzi. È solo che siamo arrivati prima che in altri posti e molte estinzioni sono quasi considerate come si riferiscano ad animali preistorici. Ma non è proprio così. Nel nostro continente, a causa della nostra espansione e della trasformazione dell’ambiente, sono via via scomparse diverse sottospecie di grandi mammiferi. Il leone europeo, il bisonte caucasico. E l’Uro. Il progenitore dei nostri tori. Il suo nome scientifico ne declama perfettamente la natura: Bos taurus primigenius. Era un grosso bovino selvatico, un po’ come i bufali africani, e popolava le pianure del centro Europa in grandi branchi. Ne esistevano anche tre sottospecie diverse. Tutte equanimemente scomparse.
Non è un animale qualsiasi, essendo anche il principale protagonista di una delle prime forme d’arte dell’intera storia dell’umanità: le sue forme e i suoi colori sono fra i più rappresentativi delle magnifiche pitture delle grotte preistoriche, a partire da quelle di Lascaux.
Una delle sue caratteristiche principali era la forma delle corna. Incurvate in avanti, come accade di rado nei nostri attuali bovini. Ed erano più grossi. Almeno 20 centimetri più alti delle nostre mucche (e le nostre mucche non sono certo piccole).
Pare fossero anche molto aggressivi, proprio come i bufali africani. E vista la fine che hanno fatto forse avevano buone ragioni per esserlo.
I riferimenti all’Uro nella cultura europea sono innumerevoli: lo nomina Giulio Cesare nel suo best-seller di guerra, il de-bello gallico; si trova negli stemmi della Moldavia e della Romania; diverse località e città prendono il nome da lui (Kaunas in Lituania; Turek in Polonia; Turjiak in Slovenia); in molti cognomi slavi (Turenin, Turishchev, Turov, Turovsky); il cantone svizzero di Uri prende il suo nome e ha anche la sua testa nello stemma.
Le prime popolazioni umane avviarono comunque un processo di addomesticamento, come accadde con i bovini selvatici dell’asia, e ancora oggi non ci sono dati certi sulla reale origine dei nostri bovini domestici. Potrebbero discendere proprio dall’uro, oppure essersi evoluti in parallelo partendo da altre specie primigenie provenienti dall’oriente.
Quale che sia la storia, in ogni caso gli Uri selvatici divennero oggetto di caccia, abbastanza forsennata. Erano grossi ed aggressivi e questo faceva di loro un trofeo ambito. Già nel XIII secolo la loro zona di diffusione si era ristretta praticamente alla sola Europa dell’est e qualche zona della Germania. Continuò comunque ad essere una delle prede preferite delle grandi battute di caccia organizzate dai signori e dai nobili di mezzo continente, e se insieme a questo ci si aggiunge la già avviata deforestazione e trasformazione delle grandi pianure dell’Europa centrale in terreni agricoli, già all’inizio del cinquecento la loro sorte era segnata.
Probabilmente furono anche fra i primi ad essere presi in considerazione per qualche tipo di salvaguardia, nel senso che da un certo punto in poi la loro caccia fu vietata. Naturalmente solo a chi non era nobile.
Ma non servì a salvarlo, e forse i nobili in Europa erano ancora troppi, di sicuro erano tanti quelli appassionati di caccia. A metà del cinquecento già ne restavano soltanto una cinquantina di esemplari. L’ultimo esemplare di cui si ha notizia certa, una femmina, morì nel 1627 in Polonia. E così addio all’Uro.
Ma l’Uro è una delle poche specie che abbia anche una storia successiva alla sua estinzione, ed è una storia del tutto particolare.
Il suo ruolo di progenitore dei bovini attuali ha infatti fatto ritenere, in più occasioni, che i suoi geni siano ancora in circolazione negli animali domestici viventi. Con questa idea alcuni allevatori tedeschi, in particolare i fratelli Heinz e Lutz Heck, direttori di giardini zoologici, ai primi del secolo scorso iniziarono un programma discutibile ma non privo di un certo interesse, effettuando una serie di incroci programmati fra diverse specie e sottospecie di bovini per riportare in vita una specie con un corredo genetico il più possibile simile a quello dell’Uro originario. Niente clonazione quindi, ma recupero della specie attraverso i suoi geni sparsi, riavvicinandoli con l’idea di accelerare lo stesso metodo da sempre usato dalla natura, facendoli accoppiare e riprodurre (storie simili si ripeteranno nel corso del novecento per altre specie, con risultati non privi di sorprese). L’aspetto più controverso della vicenda è che tutto ciò avveniva nella Germania di Hitler, e in modo abbastanza inevitabile un esperimento del genere trovò in quei decenni anche adeguati finanziamenti dal Reich dato che era assai coerente con le altre idee di “recupero della razza” e di “ritorno alle origini” molto di moda in quegli anni bui. Hitler e Goering pare siano rimasti affascinati dall’idea di riportare in vita gli Uri che venivano cacciati dai Germani ai tempi di Cesare, e forse ancora più dal modo in cui ciò poteva essere ottenuto, quasi una prova generale di ciò che si sarebbe tentato di fare per perseguire il mito della “pura razza ariana”, programmando l’accoppiamento e la riproduzione fra individui “adatti” (giovani tedeschi biondi con altrettanto giovani e bionde tedesche).
Stai di fatto che i soldi del Terzo Reich dettero grande impulso al progetto, fornendo i mezzi per raccogliere in giro per l’Europa una serie di esemplari giudicati particolarmente adatti, con caratteristiche più vicine di altri al modello primigenio.
I fratelli Heck procedettero quindi in una serie di incroci programmati, coinvolgendo soprattutto le razze bovine Highlander scozzese, Podolica ungherese e razze da combattimento spagnole. Si arrivò quindi ad una razza (mai ad una specie distinta) che è stata considerata una sorta di sosia incompleto dell’Uro originario. Insomma un bue fenotipicamente abbastanza simile anche se genotipicamente ancora piuttosto lontano dal progenitore selvatico.
E’ probabile che per questa strada non si sarebbe mai riusciti a tornare abbastanza indietro, ma in ogni caso il risultato è che oggi esiste una razza bovina, detta appunto Uro di Heck, che è probabilmente la cosa in circolazione più simile che ci sia agli Uri preistorici. Di una similitudine quasi esclusivamente estetica e poco genetica, ma certo senza dubbio più simile ad essi di quanto non fossero le razze bovine esistenti due o tre secoli fa. In pratica, una rara retromarcia.
Certo lo stretto legame fra questi incolpevoli tori e la parabola della Germania nazista non li ha aiutati, tanto che proprio a loro è toccato vivere un nuovo declino, fatto di macellazioni, bistecche e abbandono che ne ha portato i superstiti a poche decine di esemplari che rappresentano ormai quasi una curiosità zoologica. Di recente è ripartito però un certo interesse, e ora la loro popolazione è in risalita. Alcuni sono stati anche reintrodotti in stato selvatico in una riserva Olandese (Oostvaardersplassen).
Ad oggi, dunque, la conseguenza di tutto ciò è che non è facile vederli, questi grandi tori che riemergono faticosamente e contraddittoriamente dal nostro passato.
Per vederne qualcuno chi vi racconta questa storia è andato a ricercarli in un posto abbastanza fuori mano, nel parco della foresta bavarese, in Germania, e quindi possiamo anche presentarvi qualche foto “esclusiva”. Era il 2008, e non sono certo che almeno in quel luogo ci siano ancora.
Sono comunque animali straordinariamente belli, fieri e potenti. Non saranno proprio identici ai loro bisnonni ma di certo qualcosa del loro e del nostro passato ce la dicono, e forse cercare di ascoltarli è, oltre che un piacere, un dovere.
Alessandro Borgogno
fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/
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ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.
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