CRISTO MORTO - ANDREA MANTEGNA

lunedì 27 marzo 2017

la realtà supera la fantasia

 Il Grande Fratello ci Guarda

 Libro di Giuseppe Balena

Introduzione
Quando nel lontano 2006 ho deciso di iscrivermi a Facebook non immaginavo che un semplice gesto avrebbe potuto cambiare e influenzare la mia vita e quella di qualche miliardo di persone nel mondo. In quel periodo avevo appena riletto il romanzo 1984 di George Orwell. Una frase di quel libro mi era rimasta conficcata nel cervello e mi aveva sconvolto:
«Fino a che non diventeranno coscienti del loro potere,
non saranno mai capaci di ribellarsi
e fino a che non si saranno liberati,
non diventeranno mai coscienti del loro potere».
Le grandi abilità linguistiche e narrative di Orwell, d’improvviso, avevano proiettato un fascio luminoso e accecante.
Quando decisi di iscrivermi a Facebook, lo feci quasi per scherzo perché in quel periodo se ne parlava tantissimo, ma l’idea di dover condividere pensieri, foto e contatti su una piattaforma mondiale mi aveva fatto riflettere: l’immagine della prima home page del Social proiettata sullo schermo del computer mi fece pensare proprio a quello del Grande Fratello che “comandava” le vite dei personaggi del romanzo.
Ci veniva offerta una grande opportunità e per giunta gratuitamente: rintracciare i nostri amici, chattare, scambiare foto e video e soprattutto divulgare i nostri pensieri in una piazza virtuale di proporzioni imprecisate; in altre parole, il mondo virtuale sulla punta del nostro mouse. Tutto completamente a disposizione… ma cosa c’era da dare in cambio?
Quando un venditore di enciclopedie ci ferma per strada non dice che vuole vendere qualcosa, saluta e mette all’avventore in mano un piccolo regalo in modo tale che si senta obbligato e quindi non possa rifiutare l’offerta che successivamente gli verrà fatta. Piccoli stratagemmi di marketing spicciolo.
Facebook ci metteva in mano uno strumento straordinario e pochi hanno pensato all’inizio cosa in realtà chiedeva in cambio. La “fregatura” non era immediata né evidente, ma c’era: si trattava di barattare la nostra privacy per l’atavica e narcisistica voglia di notorietà e di apparire. Era il sogno di poter allungare all’infinito i famosi quindici minuti di notorietà di cui parlava Andy Warhol.
Ecco perché goliardicamente decisi di iscrivermi a Facebook con il doppio nome di Giuseppe Winston Balena Smith, proprio come il protagonista di 1984. Da allora non l’ho più cambiato.
Il libro che avete tra le mani nasceva inconsapevolmente in quel lontano 2006 e si è sedimentato lentamente negli anni come un puzzle che si ricompone pezzo dopo pezzo. Questo volume ha l’ambizione di analizzare nel dettaglio le azioni manifeste e nascoste “grazie” alle quali si esercita il controllo sociale nei confronti di tutti noi.
L’intento è di tracciare le linee della storia del controllo e della sorveglianza sociale, ma è anche idealmente quello di offrire un indice critico degli strumenti utilizzati nell’epoca in cui viviamo.
Ci sono, poi, i soggetti che, come vedremo, secondo i contesti di riferimento possono essere anche dei calembour: controllori, controllati, controllori, controllati e ibridi.
Il contesto di riferimento, invece, può essere classificato essenzialmente in privato, pubblico o ibrido. Dalla combinazione di questi elementi derivano infinite combinazioni che si manifestano in maniera più o meno palese nel quotidiano e che saranno illustrate e analizzate nel libro. In particolare si porrà l’attenzione sulle tecniche del controllo nella vita quotidiana e come queste siano subdole, invisibili ed enormemente estese.
Il libro propone, in prima battuta, un excursus storico cercando di rintracciare il momento dell’inizio sistematico e le ragioni del controllo sui cittadini.
L’analisi, inoltre, si estenderà da un lato ai soggetti principali che effettuano il controllo e dall’altra alla tipologia dei soggetti controllati, con particolare attenzione poi ai nuovi soggetti spuri e intermedi.
Un passaggio importante e cruciale nella trattazione riguarderà la distinzione e l’applicazione nella pratica dei concetti di controllo e sorveglianza e come questi si siano progressivamente adattati in maniera straordinaria rispetto all’evoluzione storica, sociale, economica, politica e antropologica.
Un ruolo centrale è detenuto dalla tecnologia e in particolare dall’avvento e dal massiccio utilizzo del computer in ambito domestico prima, accompagnato dall’utilizzo di Internet, e dall’irruzione sulla scena dei cellulari e in particolare, poi, degli smartphone e dell’enorme carico di applicazioni che girano sugli stessi.
La rivoluzione di Internet e del Web è abbastanza recente nella storia dell’umanità, ma già forse vecchia se ne si considera l’evoluzione rapidissima.
Vediamone alcune date importanti:
1969: collegamento dei primi computer tra quattro università americane;
1971: la Rete Arpanet connette tra loro 23 computer;
1972: Ray Tomlinson propone l’utilizzo del segno @ per separare il nome utente da quello della macchina;
1980: primo “hack” della storia di Internet e sperimentazione sulla velocità di propagazione delle email;
1982: definizione del protocollo tcp/ip e del concetto di “Internet”;
1983: appaiono i primi server con i nomi per indirizzarsi ai siti;
1984: la Rete conta ormai mille computer collegati;
1985: assegnati i primi domini nazionali;
1987: a Internet sono connessi 10 mila computer. Il 23 dicembre viene registrato il dominio “cnr.it”, il primo con la denominazione geografica dell’Italia, ossia il sito del Consiglio Nazionale delle Ricerche;
1989: sono connessi a Internet 100 mila computer;
1993: apparizione del primo browser pensato per il Web;
1996: sono connessi a Internet 10 milioni di computer;
2000: gli utenti di Internet sono 200 milioni in tutto il mondo;
2008: gli utenti di Internet sono circa 600 milioni in tutto il mondo;
2009: gli utenti di Internet sono circa 1 miliardo in tutto il mondo;
2011: gli utenti di Internet sono circa 2 miliardi in tutto il mondo;
2015: gli utenti di Internet sono oltre 3,3 miliardi in tutto il mondo.
Un nodo cruciale che ha segnato il punto di svolta per l’esercizio del controllo, come vedremo, è stato il passaggio dal cellulare allo smartphone. Il telefono cellulare fu inventato da Martin Cooper, direttore della sezione ricerca e sviluppo della Motorola e fece la sua prima telefonata il 3 aprile 1973. Dopo dieci anni la Motorola decise di produrre un modello in versione commerciale dal costo di 4.000 dollari.
Il primo smartphone, chiamato “Simon”, fu progettato dalla ibm nel 1992 e commercializzato dalla BellSouth a partire dal 1993. Oltre alle comuni funzioni di telefono incorporava il calendario, la rubrica, l’orologio, il block notes, le funzioni email e i giochi, mentre per poter scrivere direttamente sullo schermo era disponibile un pennino. Come si può notare sia per Internet sia per la genesi storica dal cellulare allo smartphone, il tutto si è concentrato a cavallo degli anni Settanta: un’evoluzione vorticosa concentrata in circa quarant’anni di storia.
Se spostiamo poi lo sguardo al mondo dei Social Network, alcune cifre parlano da sole e sono impressionanti:
su Facebook sono attivi circa 500 mila utenti al secondo;
Facebook pubblica circa 41 mila post (messaggi di stato, condivisioni, immagini e così via) ogni secondo, mentre ogni minuto si cliccano 1,8 milioni di “mi piace” e 350 gb di dati passano per i server;
ogni dieci secondi vengono caricati su YouTube più di 50 ore di video, in pratica il corrispettivo di circa 40 anni di contenuti al giorno;
in un minuto vengono scambiati circa 278 mila messaggi su Twitter;
su Instagram vengono postate circa 3.600 foto al secondo.
A questo scenario bisogna aggiungere che il numero dei siti continua a crescere: ne nascono, infatti, ogni minuto in media 571. Per quanto riguarda, invece, la registrazione dei domini, ogni 60 secondi ne vengono approvati in media 70. Sono, invece, circa 204 milioni le email spedite in media ogni minuto.
Ciò che a livello tecnologico oggi diamo quasi per scontato, in realtà ha una vita relativamente recente, sebbene sia stato in parte “profetizzato” da opere letterarie e film. Basti pensare, solo per citare alcuni esempi, a libri come 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley o alle pellicole cinematografiche come Minority Report o The Truman Show.
L’altro aspetto correlato al controllo è di natura giuridica e riguarda il deficit nell’ambito della normativa della privacy; ai proclami di tutela giuridica della privacy corrisponde, invece, un’erosione continua e impalpabile della stessa nella vita quotidiana. Da un lato, quindi, si spinge verso misure spesso eccessivamente rigide di tutela della privacy, mentre dall’altro si manifesta una costante e inesorabile strategia del controllo.
Un aspetto cruciale riguarda, quindi, il rapporto tra privacy e controllo; questi due elementi costituiscono un complicato sistema di vasi comunicanti strettamente dipendenti e non sempre o quasi mai in equilibrio.
I dati allarmanti che tracciano poi anche una direzione futura segnalano alcuni pericoli che sarà bene tenere in considerazione: spesso siamo tutti noi a fornire gli strumenti idonei per esercitare un controllo su noi stessi e in questo caso sul banco degli imputati c’è certamente la tecnologia. Pur di avere la comodità di determinati servizi che ci rendono la vita “più tecnologica” rinunciamo spontaneamente alla nostra privacy, forse senza nemmeno accorgercene, prestando il fianco alla possibilità remota o, spesso, alla certezza di essere controllati.
È in corso un avanzamento inarrestabile di questo processo. Il controllo e la sorveglianza sulla popolazione sono essenzialmente fenomeni sociali che incidono però profondamente sulla sfera personale. Si intrecciano, pertanto, una dimensione comunitaria e una individuale, influenzandosi reciprocamente. Basterebbe analizzare, per esempio, le ragioni per le quali ogni utente si iscrive a un Social Network: nella maggior parte dei casi è per spirito emulativo, ossia perché gli amici o i conoscenti l’hanno già fatto o perché se ne parla diffusamente.
Entrano in gioco alcune dinamiche descritte, per esempio, da Gustave Le Bon nel suo saggio Psicologia delle folle:
«Dal solo fatto di essere parte di una folla, un uomo discende da generazioni su una scala di civiltà. Individualmente, potrebbe essere un uomo civilizzato; nella folla diviene “barbaro” in preda all’istinto. […] Un individuo nella folla è un granello di sabbia fra altri granelli di sabbia, mossi dalla volontà del vento».
Le Bon fu il primo a studiare scientificamente il comportamento delle folle, cercando di identificare i caratteri peculiari e le tecniche per guidarle, suggestionarle e controllarle. Applicando un paradigma di studio scientifico derivato dall’approccio clinico, Le Bon ha utilizzato i concetti di contagio e suggestione per spiegare i meccanismi della folla che portano all’emergere dell’emotività, dell’istinto e dell’inconscio, altrimenti repressi nella sfera individuale.
Nella sua opera più famosa ha analizzato il ruolo delle masse in un’accezione negativa: la massa viene intesa come una forza di distruzione, priva di una visione d’insieme, indisciplinata e portatrice di decadenza, esaltando invece la minoranza come forza capace di creare. Nella sua visione la massa, permeata da sentimenti autoritari e d’intolleranza, crea un inconscio collettivo attraverso il quale l’individuo si sente deresponsabilizzato e privato dell’autocontrollo.
Secondo Le Bon, infatti, le folle sono influenzate da fattori che determinano le opinioni e le credenze quali fattori remoti e fattori immediati. I fattori remoti sono: la razza, le tradizioni, il tempo, le istituzioni politiche e sociali, l’istruzione e l’educazione. I fattori immediati, invece, si sovrappongono a quelli remoti e sono contingenti, ossia non stratificati nel corso del tempo e determinano, pertanto, le azioni attive delle folle nell’immediato. Tra questi ultimi, un posto importante è occupato dalle immagini, dalle parole e dalle formule.
Sono proprio questi gli elementi sui quali si fa leva per innescare i meccanismi del controllo. Se proviamo, infatti, ad analizzare le principali forme di controllo, queste si rifanno e utilizzano tali categorie.
La griglia concettuale proposta da Le Bon, dunque, può essere considerata un filtro interpretativo soprattutto della società ipertecnologica in cui stiamo vivendo.
Facebook, per esempio, utilizza proprio le parole e le immagini come elementi fondanti del suo funzionamento. Il controllo tramite le telecamere pubbliche, invece, utilizza le riprese video e quindi le immagini. Il controllo tramite la tecnologia RFID, che avremo modo di analizzare in maniera approfondita, utilizza il concetto di formula, ossia un meccanismo che regola una funzione ben precisa: se dispongo di un dispositivo di qualsiasi natura con un RFID posso pagare istantaneamente passando la mia tessera vicino all’apposito lettore, ma allo stesso tempo saranno facilmente rintracciabili le mie transazioni finanziarie.
Attualizzando il pensiero di Le Bon, dunque, la massa stratifica le proprie opinioni seguendo schemi ben precisi e collaudati che dipendono da fattori endogeni ed esogeni, alcuni standardizzati e altri modificabili.
Con gli studi di Le Bon viene attualizzato e reso moderno il rapporto delle folle con l’entità sovraordinata che dovrebbe gestirle. Una comunità ha una connotazione precisa ed è strettamente legata al concetto di nazione, ossia ha una certa identità che si coagula intorno ai concetti fondanti proprio dello Stato. La folla, invece, non è identitaria e non è facilmente governabile e identificabile dalle strutture statali che seguono invece logiche e dinamiche particolari.
Nel Novecento, in particolare, le folle si sono sostituite progressivamente alle comunità. In questo passaggio e in questa mutazione genetica della società risiede il seme del cambiamento anche delle forme di controllo esercitate dal Leviatano.
Uno schema, evidenziato nel libro La società postpanottica di Massimo Ragnedda, può riassumere in maniera esaustiva i punti chiave che hanno determinato i passaggi verso la situazione attuale:
PremodernitàModernitàPostmodernità
AutocentratoEterocentratoExtracentrato
Capo tribù, famiglia o signore feudaleStato nazioneMultinazionali
Norme e sanzioni imposte dalla tribùNorme e sanzioni imposte dallo StatoNorme imposte dalle multinazionali e sanzionate dagli Stati
SoggettivoOggettivoVirtuale
Personificato dal capo tribùPersonificato dallo StatoAvvicinamento virtuale dello Stato al cittadino ma in mano alle multinazionali
Evidente e assolutoEvidente ma non assolutoNon evidente ma potenzialmente assoluto
Autarchico e legittimoCentrale e legittimoDecentrato e illegittimo
Tradizione (sguardo orientato al passato)Giurisprudenza (sguardo orientato al presente)Previsione (sguardo orientato al futuro)
La postmodernità è lo scenario nel quale germogliano e crescono in maniera impressionante il controllo e la sorveglianza delle persone. L’epoca verso la quale stiamo correndo in maniera folle e spesso sconsiderata è l’immediata conseguenza della modernità e della sua crisi. Questo concetto risulta centrale: la postmodernità nasce già intrinsecamente nella sua essenza come involuzione della modernità e come decadenza culturale, politica, sociale ed economica di essa.
La cornice di riferimento è la nascita di quella che Bauman ha definito come “società liquida”.
L’elemento fondamentale è l’incertezza. Questo sistema crea effetti particolari e unici: la globalizzazione, l’industria della paura, lo smantellamento delle sicurezze e una vita liquida sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del gruppo per non sentirsi esclusi. Dai rifiuti industriali si passa così ai rifiuti umani.
L’esclusione sociale elaborata da Bauman non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo o sul non poter comprare l’essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. Secondo Bauman il povero, nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se non riesce a sentirsi come gli altri, cioè se non riesce a sentirsi accettato nel ruolo di consumatore. In tal modo, in una società che vive per il consumo, tutto si trasforma in merce, incluso l’essere umano. La società, pertanto, crea i rifiuti dai prodotti in eccesso e i rifiutati come individui di scarto per il mancato processo di omologazione.
Ecco che avanza il postmodernismo caratterizzato da un’economia estesa globalmente, invasa dalla pubblicità e della televisione che agiscono come fattori condizionanti e costellata da un enorme flusso di notizie ormai incontrollabili provenienti dal Web.
Cerchiamo di fare uno sforzo di immaginazione: in questa cornice appena descritta proviamo a dipingere un quadro di una società a metà strada tra il romanzo 1984 e la pellicola Minority Report, entrambi nella doppia versione romanzata e cinematografica.
Proviamo a immaginare una vita senza privacy, una vita trasparente dove ognuno può sapere tutto di ogni singolo individuo. Un incubo dove tutto viene tracciato e registrato da quando uno mette il piede fuori dal letto fino a quando lo rimette dentro. In mezzo un’intera giornata dove ogni azione, o quasi, lascia una traccia indelebile. Il cellulare, il navigatore satellitare, il computer, le telecamere, il bancomat: ogni singolo momento è monitorato.
Qualcuno potrebbe scandalizzarsi, gridando all’esagerazione. È curioso invece notare come ci siano alcune situazioni reali che, spesso, vanno ben oltre quelle prospettate nelle trame narrative di Orwell o Huxley.
Tutto questo non può essere vero perché in fondo la nostra vita negli ultimi quarant’anni è sicuramente migliorata: questo scenario può essere solo frutto della fantasia, non può essere la realtà.
Invece, non è così: la realtà potrebbe superare la fantasia.
FONTE https://www.macrolibrarsi.it/speciali/introduzione-il-grande-fratello-ci-guarda-libro-di-giuseppe-balena.php
Giuseppe Balena nato a Matera nel 1975. Vive e lavora a Ferrandina (MT) come giornalista, scrittore e comunicatore web. Laureato nel 2001 in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Bari. Da luglio 2015 è redattore per la rivista «Mistero» dell’omonima trasmissione televisiva di Italia Uno. Già redattore per testate giornalistiche cartacee e online.

INDICE DEL LIBRO 

Introduzione
1 – Profilo storico e inquadramento teorico
  • Quell’occhio che ti vede…
  • La lunga storia del controllo
  • Dal controllo moderno al controllo postmoderno
  • Il gioco
  • Il controllo e la sorveglianza La New Surveillance Le ragioni del controllo I soggetti controllori
  • I soggetti controllati
2 – E’ la privacy, bellezza!
  • Guardando attraverso il buco della serratura: il problema della privacy
  • Una legislazione troppo permissiva?
3 – Il controllo e la sorveglianza pubblica
  • NSA: la sicurezza nazionale prima di tutto
  • Le altre strutture di controllo
  • Echelon: il grande orecchio del Grande Fratello
  • WikiLeaks e il Datagate
4 – Il controllo e la sorveglianza “personale”
  • Microchip sottocutaneo: il controllo sul corpo umano
  • RFID: la rintracciabilità a tutti i costi
  • La tecnologia NFC
  • Le carte di credito Le carte fedeltà
  • I nuovi documenti d’identità
  • Il riconoscimento biologico: il controllo tramite il corpo umano
5 – Il controllo e la sorveglianza tecnologica
  • Il telefono cellulare non serve (solo) per telefonare
  • Le app degli smartphone
  • Internet: il posto giusto per cadere nella rete
  • Internet of Things (IOT)
  • La smart life: vita intelligente per individui controllati
  • Smart tv
  • I Social Media
  • Facebook
  • Twitter
  • Le multinazionali del nuovo millennio
  • Google
  • Apple: la mela del peccato?
  • Con i dati sulle nuvole…
  • Microsoft: un “sistema” sempre operativo
  • Sistemi di videosorveglianza: gli occhi del Grande Fratello
  • Webcam e la sorveglianza domestica
  • Il controllo satellitare
6 – Gli imminenti scenari futuri
  • …E vissero tutti felici e controllati
  • Non è un gioco, non è finzione
  • Suggerimenti per resistere
  • Scenari (inquietanti) per l’imminente futuro
Conclusioni Bibliografia
Fonte tratta dal sito .

fonte: http://wwwblogdicristian.blogspot.it/

venerdì 24 marzo 2017

i segreti della celiachia

Claudia Benatti

E’ mai possibile che la diffusione pressoché «epidemica» della celiachia, cioè dell'assoluta intolleranza al glutine che può innescare anche gravi patologie conseguenti, possa essere dovuta ad una modificazione genetica approntata sul frumento? Questa ipotesi non è nuova e su di essa si sono spesso avventati, smentendola con ferocia, i sostenitori delle biotecnologie e dei cibi Ogm.
Ma ora, grazie all'intuizione di uno scienziato di esperienza pluridecennale in campo medico, pare possa arricchirsi di ulteriori dettagli, chiarendosi all'opinione pubblica.

Un frumento nanizzato

Il professor Luciano Pecchiai, storico fondatore dell'Eubiotica in Italia e attuale primario ematologo emerito all'ospedale Buzzi di Milano, ha avanzato una spiegazione di questa possibile correlazione causa-effetto su cui occorrerebbe produrre indagini scientifiche ed epidemiologiche accurate. 

«E’ ben noto che il frumento del passato era ad alto fusto - spiega Pecchial - cosicché facilmente allettava, cioè si piegava verso terra all'azione del vento e della pioggia. Per ovviare a questo inconveniente, in questi ultimi decenni il frumento è stato quindi per così dire “nanizzato” attraverso una modificazione genetica»...


Appare fondata l'ipotesi che la modifica genetica di questo frumento sia correlata ad una modificazione della sua proteina e in particolare di una frazione di questa, la gliadina, proteina basica dalla quale per digestione peptica-triptica si ottiene una sostanza chiamata frazione III di Frazer, alla quale è dovuta l'enteropatia infiammatoria e quindi il malassorbimento caratteristico della celiachia.

«E’ evidente - ammette lo stesso Pecchiai - la necessità di dimostrare scientificamente una differenza della composizione aminoacidica della gliadina del frumento nanizzato, geneticamente modificato, rispetto al frumento originario. Quando questo fosse dimostrato, sarebbe ovvio eliminare la produzione di questo frumento prima che tutte le future generazioni diventino intolleranti al glutine». E non è da escludere che sia proprio questo uno degli scogli più difficili da superare.

400.000 malati in Italia

La riconversione della produzione, una volta che questa sia entrata a regime e abbia prodotto i risultati economici sperati, diviene impresa assai ardua e incontrerebbe senza dubbio molte resistenze. Di qui la probabile mancanza di interesse ad approfondire una simile ipotesi per trovarne l'eventuale fondamento.

D'altra parte, nessuno ancora ha trovato una spiegazione al fatto che l'incidenza della celiachia è aumentata in maniera esponenziale negli ultimi anni e l'allarme non accenna a rientrare. «Mentre qualche decennio fa l'incidenza della malattia era di 1 caso ogni mille o duemila persone, oggi siamo giunti a dover stimare 1 caso ogni 100 o 150 persone», spiega Adriano Pucci, presidente dell'Associazione Italiana Celiachia. «Siamo dunque nell'ordine, in Italia, di circa 400 mila malati, di cui però soltanto 55 mila hanno ricevuto una diagnosi certa e seguono una dieta che può salvare loro la vita».

In molti sostengono che l'aumento dei casi di celiachia sia una conseguenza del miglioramento delle tecniche diagnostiche, ma la spiegazione non convince, appare eccessivamente semplicistica e riduttiva. Fatto sta che, anziché cercare spiegazioni sulle cause, cosa che permetterebbe di provvedere poi alla loro rimozione, la ricerca oggi percorre direzioni opposte, ipotizzando e sperimentando ulteriori modificazioni genetiche del frumento stesso per «deglutinare», cioè privare del glutine, ciò che ne è provvisto o «immettere» nel frumento caratteristiche proprie di cereali naturalmente privi di glutine.

Il mistero dei Creso

A proposito torna alla mente una questione dibattuta qualche anno fa alla quale non è mai stata fornita risposta e che rimane a tutt'oggi un problema apertissimo e attuale: il cosiddetto grano Creso. Nel 1974, all'insaputa dei più, viene iscritto nel Registro varietale del grano duro il Creso.

Nove anni dopo, la superficie coltivata a Creso in Italia era passata da pochi ettari a oltre il 20% del totale, con 15 milioni di quintali l'anno per un valore, di allora, di circa 600 miliardi di vecchie lire.
Da una pubblicazione del 1984 si ricavò poi che quel grano era stato «inventato» e sviluppato presso il centro di studi nucleari della Casaccia (1). Nel lavoro, come ricordò nel 2000 anche il fisico Tullio Regge su Le Scienze, si sottolineava l'efficacia della mutagenesi e l'introduzione di nuovo germoplasma e di ibridazioni interspecifiche.

In sostanza, il Creso era il risultato dell'incrocio tra una linea messicana di Cymmit e una linea mutante ottenuta trattando una varietà con raggi X. Per altre varietà in commercio erano stati utilizzati neutroni termici. In che misura, per esempio, il consumo continuativo di questo frumento può avere influenzato l'organismo di chi lo ha ingerito? Non si sa, né pare che alcuno voglia scoprirlo. Lo stesso Regge si limitò ad affermare che comunque «lo hanno mangiato tutti con grande gusto».
E se la celiachia fosse il risultato di decenni di ripetuti e differenti interventi sulle varietà di grano che sta alla base della maggior parte del cibo che mangiamo? Chissà se a qualcuno, prima o poi, verrà voglia di capirlo.

Fonte: www.disinformazione.it

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it/

martedì 21 marzo 2017

l'origine del male secondo Tolomeo

Guido Pagliarino, nel saggio “Cristianesimo e Gnosticismo 2000 anni di sfida”, riporta la dottrina di Tolomeo, teologo gnostico-cristiano, di scuola valentiniana.[1] 

Scrive l’autore: “Per Tolomeo, Cristo ha, oltre allo Spirito, un corpo psichico, non carnale, ma neppure solo apparente, in quanto è dotato di reale anima (psiche) umana, per cui possono essere salvati gli psichici oltre agli spirituali: secondo lui, solo i materiali (ilici) cadono senz’altro nel nulla.

Anche per Tolomeo, quindi come per tutti gli gnostici, l’immortalità dei salvati da Cristo non è quella cristiana in corpo ed anima; anzi, come vedremo parlando di Paolo, quella di un corpo animale psichico trasformato in corpo spirituale glorioso.
Secondo Tolomeo, Dio è Uno e si devono considerare inesistenti Abisso e Silenzio predicati da Valentino.
Il Demiurgo è buono anche se, potremmo dire, pasticcione: non è in grado di realizzare, pur con ottima intenzione, il mondo che è nella mente dell’Uno. L’ha fatto maligno per avventatezza, non apposta, un po’ come certi piccoli che vogliono di nascosto imitare la madre in cucina e vi combinano qualche guaio”....

Come si comprende dai lineamenti della dottrina elaborata da Tolomeo, la presenza del male è spiegata, delineando un Demiurgo imperfetto e maldestro. In questo modo non solo si scagiona Dio (l’Uno), ma pure l’artefice del mondo considerato, invece, malvagio da alcune frange gnostiche e talora identificato con YHWH. La teologia di Tolomeo implica una visione entropica del processo creativo che genera una realtà inferiore all’idea primigenia: uno scollamento ontologico separa l’archetipo dalla materia, secondo un quadro che si ritrova nel Neoplatonismo e, più in generale, in tutte le filosofie incentrate sul concetto di emanazione. Il male è dunque, per così dire, non tenebra, ma luce molto fioca.
E’ una delle tante congetture che – ne sono conscio – molti reputeranno una bestemmia più che un’eresia: la visione di un Dio incompiuto, non onnipotente è un escamotage teorico per tentare di chiarire il mysterium iniquitatis o contiene un’intuizione corretta? 

Un Dio simile è ipotizzato da alcuni scienziati: essi ritengono che la Mente cosmica, per evolvere, per diventare cosciente di sé, abbisogni di esperire lo spazio-tempo, di proiettarsi nella dimensione fisica.

Solo, postulando un Essere siffatto, ha senso riferirsi al concetto di evoluzione, poiché è palese che un Dio perfetto non esige alcuno sviluppo. Il cosmo stesso diventa la palestra in cui ci si allena per un salto evolutivo: chiuso un ciclo, se ne apre un altro ad un livello superiore, fino a quando il Tutto non culmina nel Compimento e nella Quiete.

E’ un pensiero ragionevole o l’essere tende, a mo’ di asintoto, verso una Perfezione intangibile? Sono supposizioni che producono una gragnuola di domande, creando più aporie di quante ne “risolvano”, con il modello evolutivo che si oppone alla teoria dell’involuzione. (Si pensi a Fiorella Rustici). 

Forse non ha torto il filosofo Pareyson, secondo cui il male abita nel cuore stesso dell’universo. Ogni teodicea, più che una giustificazione della sofferenza, è una difesa di Dio: difficile stabilire chi sia l’avvocato migliore. 

[1] Purtroppo il libercolo di Pagliarino è viziato da una superficialità disarmante, anzi l’autore prende le mosse da una tesi preconcetta, ossia lo Gnosticismo è una deviazione del Cristianesimo, per ribadirla in tutto l’opuscolo. Ora, non discuto l’interpretazione dell’autore, ma liquidare un problema tanto ostico in poche paginette, per giunta affermando che già nel I-II sec. d.C., Cristo è creduto la Seconda Persona della Trinità, mi pare molto azzardato.

Non meno avventata è la datazione bassa dei Quattro Vangeli, la cui redazione è collocata dallo studioso nel I sec. Su queste ed altre premesse errate, è costruita una tesi opinabile e debole, perché basata non su un’indagine, ma su una semplice panoramica di correnti e dottrine. Ben più vigorose e rigorose sono le ricostruzioni del rumeno Culianu, dottissimo discepolo di Mircea Eliade, e, in parte, le analisi dell’erudito Ezio Albrile che, però, osserva lo Gnosticismo con la lente deformante del cattolico.

In ogni caso, il tanto vituperato Gnostiscismo, almeno in alcune sue diramazioni, su certi temi fu profondo. Se non altro, i pensatori pneumatici compresero che la carneficina dell’esistenza è inconciliabile con l’idea di un Dio perfettissimo ed infinitamente buono: se le loro risposte furono deludenti e goffe, non fu tanto colpa loro, quanto dell’abissalità della questione.

Fonte: zret.blogspot.com

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it/

domenica 19 marzo 2017

Tripalium

Il lavoro mortifica l'uomo

Giovanni Marano

PREMESSA
Questo scritto è una ferma contestazione nei confronti di tutti coloro che hanno confuso il lavoro (Dovere civico e morale, non coercitivo, svolto dall'uomo nell'interesse proprio e della comunità) con uno strumento di tortura atto a soggiogare l'intera umanità. E' un forte disappunto nei riguardi di chi crede oramai (prescindendo da chi ne detiene la proprietà) che quello monetario sia l'unico sistema possibile, ed è una dura critica all'indirizzo di chi, pur condividendo il mio pensiero, inizia a mostrare segni di indulgenza verso quelli che considero unicamente infami ricatti!
Ma nonostante la dovizia di epiteti che ne caratterizza il contenuto, malgrado il veemente eloquio ed i suoi toni chiocci, spero che questa mia filippica venga interamente intesa come nient'altro che una provocazione.

Mi auguro davvero che questo articolo non arrechi particolare offesa a nessuno e che sia opportunamente stimato per il suo effettivo scopo, ossia un pretesto per riflettere sulla nostra straordinaria capacità di autodistruzione, sulla nostra incredibile predisposizione nel farci turlupinare, sulla nostra insita tendenza nell'accettare l'assurdo come ovvietà...



ETIMOLOGIA E SIGNIFICATO DEL TERMINE LAVORO

Lavoro: Dal latino labor, laboris: fatica, duro sforzo, impiego di energia.
Sinonimizzazione del termine lavoro:
Lavoro/Fatica/Sforzo/Travaglio/Dolore/Male/Sofferenza/Affanno/Difficoltà/Afflizione/
Umiliazione/Mortificazione/Tormento/Pena/Schiavitù/Tortura..

Sono noti i detti della letteratura classica "durar fatica" e "operar faticando". Ancora oggi in alcuni dialetti si utilizzano i termini "faticare", "andare a faticare", per intendere "lavorare" e "andare a lavorare". Altro termine di parlate italiane per "lavoro" è travaglio, dal Latino tardo tripaliare, Tripalium (strumento di tortura composto da tre pali su cui veniva posto e torturato lo schiavo). In siciliano "lavorare" si dice "travagghiari," in piemontese "travajè, in spagnolo "trabajar", in portoghese "trabalho", in francese "travail".

(Fonti: Enciclopedia Treccani, Zingarelli, Dizionario della lingua Latina Le Monnier, Wikipedia.)

CONSTATAZIONE
Ergo! Appurato e preso atto di quale sia la reale accezione della parola "lavoro", non posso che considerare assolutamente sincero, onesto, veritiero e coerente, ciò che recita la prima parte del famigerato art. 1 della Costituzione Italiana. Infatti, quando in Esso vi leggiamo che l'Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro, altro non apprendiamo che, quelle fondamenta ove sopra si erige la Nazione Italiana sono gettate letteralmente sulla nostra Sofferenza. 
Dunque, che lo si ammetta o meno, nel suddetto articolo vi è racchiusa un incontrovertibile verità, sottoscritta, accettata e condivisa da tutto il popolo italiano. 
Con il termine "lavoro" altro non si intende che il nostro Travaglio, il nostro Dolore, e non quella fonte di guadagno a cui, erroneamente, siamo abituati ad associarlo. Difatti questo lemma cela astutamente quale fu, ed ancora è, l'effettivo prezzo da noi pagato per ottenere l'odierna Repubblica Italiana: la nostra Schiavitù.
L'Italia!
Paese il quale con troppa ingenuità consideriamo Patria, "terra dei nostri padri". Ma se è vero che ogni parola ha un senso ed un valore, e che è importante e doveroso conoscerne il significato, allora non si possono considerare padri coloro che si nutrirono della Pena dei loro figli pur di sfamare la propria cupidigia! Mentre invece è legittimo ed opportuno definire Mortificazione e Tortura il lavoro, essendo questi alcuni dei suoi veri significati! E questa purtroppo non è un'opinione, ma un'amara constatazione.
INVETTIVA
Considero il lavoro una delle più meschine e subdole, oltre che crudeli, forme di schiavitù con cui si possa sottomettere un uomo.
La nostra civiltà, la nostra "umana civiltà", la quale vanta d'aver scritto una così "democratica" costituzione, basandosi su nobili ed inalienabili valori come l'uguaglianza, la legalità, la fraternità; dovrebbe a dir poco vergognarsi ogniqualvolta un uomo viene fisicamente usato in ciò che astutamente ha denominato "lavoro".

Già, il lavoro!
Termine il quale non rende giustizia all'etimologico significato a cui esso è legato veramente, ovvero: Fatica. Sforzo. Con quanta arroganza e presunzione questa ambigua società si definisce civile!
Non c'è nulla di civile nel sottoporre un essere umano a frustranti ed umilianti fatiche. 
Non c'è nulla di nobile nel sfruttare la gente, nel profittare delle loro difficoltà, delle loro debolezze, qui di "nobile"ci sono solo le famiglie dei ricchi, divenute tali grazie al sudore e al sangue degli uomini che hanno reso schiavi. 
L'unico uomo a divenire "nobile" con il lavoro, è colui il quale lascia siano gli altri a svolgerlo al posto suo. 
Questo metodo nobilita così tanto che, qualcuno addirittura c'è diventato Re. 

Il lavoro è solo mera crudeltà, uno strumento per rubarci la dignità, e ancora più ignobile e vergognoso è il tentativo di voler supplire a tale furto, con uno dei gesti più deplorevoli che si possano compiere nei confronti di un'altro uomo: Pagarlo.
Offrirgli denaro in cambio delle sue..."prestazioni", comperandolo completamente, mente e corpo, proprio come avviene con chi si prostituisce. Tanto cosa c'è di male vero? Visto che in questa società anche la prostituzione è considerata un lavoro! Ma come si può credere che tutto ciò sia normale? Come si può considerare questo sistema civile e umano fino al punto di accettarlo addirittura come ovvio e naturale? Cosa cacchio c'è di naturale, di umano, nel rendere schiavo un uomo? O, peggio ancora, un bambino ... 

Io non voglio assolutamente essere impiegato, occupato, collocato, adoperato, utilizzato da nessuno! 

Io non sono un'attrezzo. Non sono uno strumento. Io sono una persona! 

Sono l'unico in grado di stabilire quando, come e dove potermi rendere utile. Io solo sono capace di indicare in quali circostanze e condizioni le mie doti si possono esprimere al meglio, in modo da poter essere veramente efficace e di effettivo aiuto alla collettività!

Collaborare non lavorare

Considero umana una civiltà che lascia agli uomini la libertà di poter decidere come meglio rendersi validi, e non una che pretende di dover disporre della loro vita. 
Vorrei essere libero di mettere le mie capacità a disposizione della comunità, al servizio del genere umano, spontaneamente, e non esserne obbligato. Vorrei essere io a stabilire ove è più opportuno che mi prodighi. Ogni uomo, per fortuna, è diverso da un altro per abilità e capacità, ogni uomo è straordinariamente portato per una specifica attività. Ciò dovrebbe permettere di poter contare sull'aiuto di tanti uomini straordinari in tanti ambiti differenti se solo, però, ognuno di questi potesse scegliere liberamente di dedicarsi alla cosa che sa fare meglio. Che bello sarebbe poi se fossimo ripagati per il nostro prezioso e spontaneo contributo con attestati di stima e rispetto, anziché offesi col laido denaro!

Gratificazione non retribuzione 

Ma come diavolo si può dare un prezzo alla vita di una persona? In base a quale assurdo criterio viene stabilito il prezzo della nostra vita? Quale onnipotenza ha deciso che ogni ora della mia vita dovesse valere 7 luridi euro? Ci vendono e ci comperano come se fossimo merce, sacchi di patate. E c'è chi addirittura mi consiglia d'esser contento e soddisfatto di quei vili 7 danari, dato che v'è chi non percepisce nemmeno quelli. E dannazione è vero!

E tutto questo dovrebbe essere degno di una umana civiltà? Cieco è il nostro discernimento, muto il nostro orgoglio, sorda la nostra dignità. Accidenti! Accidenti a noi! Accidenti a questo nostro maledetto difetto di accettare qualsiasi cosa ci venga proposta senza mai accennare nemmeno ad un'obbiezione, senza mai nemmeno porre una sola domanda... figurarsi pretendere poi una risposta! Abbiamo preteso la "ResPubblica", ma qui di pubblico non vi sono rimasti nemmeno più i cessi! 


Maledizione! Abbiamo gioito come dei perfetti idioti mentre ci imponevano la "Nuova Democrazia", e noi sciocchi, convinti di aver ottenuto la possibilità di poter decidere un qualche cosa...abbiamo esultato, credendo di essere ormai divenuti un popolo che conta; invece ad essere contati eravamo noi, proprio come si fa con le pecore mentre vengono spinte all'interno del recinto. 

Che imbecilli! Ma quale potere decisionale? Ma cosa diamine ci fanno scegliere, con quale forma di tortura preferiamo essere Afflitti? Perchè è questa l'unica cosa che ci permettono di stabilire. Noi non contiamo un cavolo! La Democrazia non ci ha reso più saggi, ma solo più illusi. Anzi, più fessi! Il numero della popolazione mondiale continua ad aumentare e con esso cresce quello dei poveri, e con i poveri quello degli sfruttatori. 

Che senso ha essere in tanti, se poi ci facciamo ricattare dai pochi? L'Italia vanta ormai 60 milioni di abitanti, potremmo essere una grande Nazione, ed invece siamo solo un paese numeroso. 
Perché vi è differenza tra l'appartenere ad un grande Popolo, e il fare parte di una popolazione grande.

Ma davvero siamo contenti di essere trattati come le pecore? Ma non credete che sia arrivato veramente il momento di mandare tutti Affanculo? O questa è un'esclusiva concessa solo ai politici e agli intellettuali? 

Incominciamo proprio da loro, da quei demagogici urlatori di ovvietà, gli stessi che, con tanta enfasi, ci mettono in guardia dalle truffe semantiche, raccomandandoci una più attenta disamina dell'enunciato in cui ci andiamo a imbattere, in modo da poter scorgere gli inganni che in esso si annidano. Pensate, alcuni di questi oratori sono così meticolosi nelle loro dissertazioni che per spiegare quale sia la differenza tra le vocali di congiunzione E e O, necessitano di approntare addirittura delle conferenze stampa. Non è straordinario? Peccato solo che, mentre questi politicanti imbonitori dispensano suggerimenti e buoni consigli su come difendersi dai tranelli lessicali, contemporaneamente, per merito di un fuorviante eloquio, asseriscono ogni sorta di assurdità, le quali, solo una più acuta semantica, appunto, può smascherare. 

Ad esempio: loro ritengono che v'è differenza tra reddito e lavoro, e sostenendone la scindibilità, proponendo nientedimeno di rifondare l'Italia non più sul lavoro, ma peggio ancora sul reddito, perché secondo questi nuovi "profeti":"E' il reddito ciò che conta veramente, non il lavoro". 

Peccato però che, purtroppo, per produrre reddito si è costretti a lavorare! Fondare un paese sul reddito, questa è follia! Le Nazioni andrebbero fondate sull'onestà, sul rispetto, sulla dignità, sull'Amore. Non sul loro stramaledetto reddito! Ma questi niente ... Anzi, gli "onorevoli" soloni incalzano: "Il lavoro va reinventato! " Reinventato? Porca miseria! Non gli bastava averlo inventato già una volta? Ma l'apice dell'inverecondia lo raggiungono proponendoci la loro arma segreta, la panacea di tutti i mali, il loro asso nella manica: Il reddito di cittadinanza.

Ovvero, un versamento erogato dallo Stato nei confronti dei cittadini, finanziato da una tassazione generale nei confronti dei cittadini. Che fenomeni! Altrimenti da dove diavolo credete che li prenderebbero i soldi per finanziare queste iniziative? Non crederete mica davvero che stampano il denaro per regalarlo a noi? Ci pigliano per il Culo! Loro l'asso l'hanno nelle maniche, a noi lo infilano dentro le braghe! 

L'intero parlamento è ormai un manicomio e noi siamo costretti a prendere i loro pazzi in cura! Questi sono capaci di tutto, e forse hanno proprio ragione quando dichiarano che: "Non avete ancora capito con chi avete a che fare!" E quando lo capiremo sarà decisamente troppo tardi. Per questo mi incazzo se ripenso che abbiamo accettato il denaro come unico mezzo possibile per la compravendita di beni o servizi. Inconcepibile. Ma porco Giuda, avevamo già il baratto, la forma più civile ed umana di scambio e interscambio che potessimo desiderare, la migliore di cui l'uomo si potesse mai avvalere.
E noi cosa facciamo? La sostituiamo con la carta straccia. Ma saremo Stupidi? E' inevitabile essere vittime di circonvenzioni, visto che non siamo altro che una manica d'incapaci. Maledetti noi! Maledetti soldi! 
E con quanto fervore lottiamo ancora oggi per perorare, legittimare l'esistenza del denaro.
"La moneta deve essere pubblica e non privata, vogliamo la proprietà della moneta, vogliamo la sovranità monetaria!"

Cosa?? La Sovranità Monetaria? Cioè? Cosa ci vogliono imporre la Monarchia Pecuniaria? 
Ma io non voglio esser suddito di un Re di Denari! Io non voglio inchinarmi dinanzi a una moneta Io non voglio un Euro per Sovrano! E nemmeno una Lira per Regina! Cosa diavolo me ne faccio della proprietà della moneta se poi per ottenerla sono costretto ad umiliarmi? Ma quale proprietà?
"Non si può possedere ciò che ci possiede", "Non si possono comperare "beni" utilizzando ciò che ha già comperato il nostro" E' tutto un Inganno, un'Illusione. 
Ci concedono di respirare ossigeno pretendendo in cambio i nostri polmoni! Dov'è la logica in tutto questo? Prima ci costringono ad accettare la moneta, poi però ci dicono che non c'è abbastanza Fatica per tutti con cui procurarcela. Pazzesco! 
Ed è a causa di questo perverso giochino che l'uomo costringe la propria dignità a toccare il fondo. 
Il terrore di non riuscire a trovare un lavoro che ci permetta di vivere ci spinge ad accettare le mansioni più umilianti ed astringere ignominiosi accordi. 

"Niente lavoro, niente soldi!" 

Questo getta l'uomo nel panico, mutandolo, trasformandolo in qualcosa di mostruoso, pronto a tutto pur di procurarsi il denaro, disposto a volte a sacrificare perfino chi ama pur di assicurasi un guadagno. 
Esso diverrà subdolo, meschino, cinico, atarassico, e laddove anche l'ultimo espediente atto a guadagnare quattrini si rivelasse inefficace, allora a quel punto..sarà la disperazione ad avere il sopravvento su di lui, inducendolo a considerare il caldo abbraccio dalle fiamme come l'unica soluzione definitiva per risolvere tutti i suoi economici problemi. Vittime e carnefici al servizio di Sua Maestà il Denaro! 

Il Denaro è nocivo, e tossici i suoi derivati: Usura, lavoro minorile, prostituzione, contrabbando, furti, sequestri di persona, omicidi, guerre. 

Ma lo vogliamo capire che il problema vero non è la proprietà della moneta ma la moneta stessa? 
Se davvero servisse solo per una comodità di scambio, allora come mai gli è stato attribuito un valore anche in assenza di un corrispettivo bene materiale? Perché mai accettiamo come intrinseco quello che è solo il suo valore nominale? Ve lo dico io: perché siamo dei Coglioni! 

Abbiamo reso prezioso ciò che non lo è.
Noi non dovremmo pretendere la sovranità monetaria, ma la Gratuità Monetaria.


La nostra esistenza non deve, non può dipendere dalla nostra ricchezza. L'uomo ha il diritto ad esistere a prescindere dal suo reddito. Sono più di 2000 anni che invochiamo la libertà, e l'unico sistema che abbiamo escogitato per ottenerla è quello monetario. Questa è schizofrenia. 
Come possiamo pretendere la libertà se ci ostiniamo ad essere schiavi del denaro? Siamo degli stolti! 2000 anni buttati nel cesso. 2000 anni di stupidità. 
E la cosa peggiore è che addirittura sembriamo fieri di questo disastro evolutivo, mentre la vergogna sarebbe decisamente il sentimento più appropriato per sottolineare siffatto scempio! 

Il Senso vero della vita, è vivere facendo cose che ne abbiano uno.

 E tutto questo non lo ha, ecco! Ora mi sembra quasi di udirle, sono le voci degli Assuefatti, degli Ovinidi: "E come pretenderesti di campare senza soldi?" Semplice! Con il modo più civile, naturale ed umano possibile: ricevendo in cambio come segno di riconoscenza per i miei gratuiti servigi, in maniera altrettanto gratuita, ogni genere di bene necessario, e solo il necessario, per soddisfare tutto il fabbisogno quotidiano mio e della mia famiglia, garantendoci sopratutto l'umana dignità.
L'uomo non deve guadagnarsi da vivere, quello lo ha già fatto venendo al mondo! E' chiaro questo?
Il vivere già ci appartiene, è il saper vivere che ancora ci manca! 


Le persone dovrebbero vivere di ciò che veramente è indispensabile, sbarazzandosi del superfluo, dell'inutile. Ma, comprendo la grande incapacità di certi lobotomizzati nel riuscire a privarsi per del proprio super tecnologico televisore con cui meglio ammirare "tutto il marcio minuto per minuto", oppure alla difficoltà di rinunciare all'acquisto di un auto che non funziona, se non dopo aver introdotto al suo interno del carburante fossile altamente inquinante comperato a caro prezzo, il quale però si consumerà entro qualche chilometro e quindi...ne andrà ricomperato dell'altro, se si vuole che la macchina appena comperata ritorni a funzionare! Ma saremo scemi? 
Ma in fondo, chi se ne frega, in fondo il denaro serve a questo, no? E' per questo che andiamo a "lavorare" vero? Per poterci contornare d'ogni sorta di inutilità, soddisfacendo così la nostra sete di potere, la nostra voglia di sentirci padroni di qualcosa. Poveri illusi!
Stupida, ottusa e presuntuosa è l'umana convinzione d'esser proprietari della materia. Ori, diamanti, palazzi ... di tutto ciò che noi crediamo aver possesso, ne abbiamo invece solo un effimero usufrutto.

Comunque, lungi da me con questo isterico sfogo pretendere che qualcuno mi dia ragione, mi basterebbe anche solo..venisse preso in considerazione. Ma probabilmente l'unica cosa che "guadagnerò", sarà qualche inimicizia in più. Nulla cambierà, ma poi...perché dovrebbe? Quindi domani, come ogni mattina, come fanno ogni giorno miliardi di persone ormai da secoli, dopo aver indossato la nostra solita maschera su cui vi è impresso il sorriso d'ordinanza, ci recheremo al "lavoro", con una bugia nel cuore ed un obolo in tasca. Permettendo così a chi tira i nostri fili, di sfruttarci per l'ennesimo giorno della nostra vita. 
E per l'ennesimo giorno della nostra vita ci faremo crocifiggere, ognuno alla propria croce, ognuno inchiodato al proprio maledetto TRIPALIUM !



Si può seguire Giovanni Marano sulla sua pagina di Facebook : MARATRIX

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fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it

venerdì 10 marzo 2017

Thérèse Hargot

la nuova schiavitù della rivoluzione sessuale

La cosa incantevole di questa giovane scrittrice, blogger, terapeuta e insegnante, è che le domande che pone sono sempre di più delle risposte che dà. 

Eppure queste sono molte, spesso spiazzanti, quasi sempre controtendenza: il “segreto”, per così dire, sta forse nella formazione filosofica della Hargot, che non approccia il sesso quale quintessenza e fine della vita umana, bensì come orizzonte privilegiato in cui si manifesta il mistero della persona umana.

Thérèse Hargot è una giovane sessuologa belga (nata nel 1984) con una laurea in filosofia e un master in scienze sociali alla Sorbona. Sposata, con tre figli, Thérèse ama sfidare la vulgata corrente. 

È fermamente convinta che la rivoluzione sessuale abbia apportato una liberazione senza libertà sicché, in luogo di renderci più liberi, ci ha fatti transitare da una obbedienza all’altra. In particolare la cosiddetta «liberazione sessuale» ha asservito il corpo della donna...


È quanto espone in Une jeunesse sexuellement libérée (ou presque) [Una gioventù sessualmente liberata (o quasi)], arrivato a vedere 15 mila copie.

Nel libro, uscito a febbraio in Francia (è in corso la traduzione italiana per Sonzogno), la Hargot si sofferma sull’influenza della liberazione sessuale sul nostro rapporto col sesso. È forte la sua critica al sesso tecnicizzato, igienizzato, ridotto alla combinazione meccanica dei corpi. Il paradosso, dice la sessuologa belga, è che la sessualità non è mai stata tanto «normata» come nel nostro tempo per via del combinato disposto tra il culto della performance (imposto dall’industria pornografica) e l’ansietà derivata da una morale igienista.

Fondamentalmente, confessa a «Le Figaro», è cambiato soltanto il nostro modo di relazionarsi alle cose del sesso:«Se la norma è cambiata, il nostro rapporto con la norma è lo stesso: restiamo all’interno di un rapporto di dovere. Siamo semplicemente passati dal dovere di procreare a quello di godere. Dal «non bisogna avere relazioni sessuali prima del matrimonio» al «bisogna avere relazioni sessuali il prima possibile». Una volta la norma era dettata da un’istituzione, principalmente religiosa, oggi è dettata dall’industria pornografica. La pornografia è il nuovo vettore normativo nel campo della vita sessuale».

La differenza è che la norma ora è stata interiorizzata, individualizzata. «Mentre un tempo le norme erano esteriori e esplicite, oggi sono interiorizzate e implicite. Non abbiamo più bisogno di una istituzione che ci dica quello che dobbiamo fare, l’abbiamo assimilato da soli. Non ci viene più detto esplicitamente quand’è che dobbiamo avere un figlio, ma tutte abbiamo compreso molto bene il «momento buono» per essere madri: soprattutto non troppo presto, e quando le condizioni finanziarie sono favorevoli. È quasi peggio: siccome ci crediamo liberati, non abbiamo più coscienza d’essere sottomessi a delle norme».

Ma quali sono le coordinate psicologiche disposte dalla nuova normatività sessuale? 

«La novità», risponde la Hargot, «sono le nozioni di performance e di successo, che si sono insediate al centro della sessualità. Questo tanto per il godimento quanto per il nostro rapporto con la maternità: bisogna essere una buona madre, crescere bene il proprio bebé, essere una coppia di successo. E chi dice performance e efficacia dice angoscia di non farcela. Questa angoscia crea della disfunzioni sessuali (perdita dell’erezione, ecc.). Abbiamo un rapporto molto angosciato con la sessualità, perché siamo costretti ad avere successo».


Questa nuova normatività nelle cose del sesso tocca tanto gli uomini quanto le donne, ma in maniera differente.

Non si esce dagli stereotipi: «l’uomo dev’essere performante nel suo successo sessuale, la donna nei canoni estetici».

La norma si trasmette sotto forma di discorso igienista, andato a sostituire la vecchia morale di un tempo. Si fomenta così una psicologia individuale straziata, oppressa dalla simultanea presenza del piacere e della paura. Il sesso è piacere, ma è anche un sesso pericoloso, che infetta e uccide, attenta alla vita fisica: «L’AIDS, le malattie veneree, le gravidanze indesiderate: siamo cresciuti, noi nipoti della rivoluzione sessuale, con l’idea che la sessualità fosse un pericolo. Ci dicono che siamo liberi e nello stesso tempo che siamo in pericolo. Ci parlano di «sesso sicuro» e di preservativo, abbiamo sostituito la morale con l’igiene. Cultura del rischio e illusione della libertà, questo è il cocktail liberale che ormai si è imposto anche nel campo della sessualità. Questo discorso igienista è molto ansiogeno. E inefficace: si trasmettono sempre numerose malattie veneree».

Come sessuologa, Thérèse lavora a stretto contatto con gli studenti liceali, in un’età della vita particolarmente esposta all’immaginario diffuso dall’industria pornografica. Negli adolescenti, osserva, «la cosa più significativa è l’influenza della pornografia sul loro modo di concepire la sessualità. Con lo sviluppo delle tecnologie e di internet, la pornografia viene resa estremamente accessibile e individualizzata. A partire dalla più giovane età, condiziona la loro curiosità sessuale: a 13 anni ci sono ragazzine che mi domandano cosa ne penso delle cose a tre. Più in generale, al di là dei siti pornografici, possiamo parlare di una «cultura porno» presente nei videoclip, nei reality, nella musica, nella pubblicità, ecc.».

Sulla psiche dei più piccoli poi l’impatto della pornografia è devastante: «Come può un fanciullo», si chiede la sessuologa belga, «accogliere queste immagini?». A questa età si è davvero «in grado di distinguere tra la realtà e le immagini?». 

La risposta è un no senza appello alla sessualizzazione precoce: «La pornografia sequestra l’immaginario del bambino senza lasciargli il tempo di sviluppare le proprie immagini, le proprie fantasie. Crea un grande senso di colpa per il fatto di sperimentare una eccitazione sessuale attraverso delle immagini e crea anche una dipendenza, perché l’immaginario non ha avuto il tempo di svilupparsi».

La sedicente «liberazione sessuale», si legge nel suo libro, sembra non ridursi ad altro che a questo: «Essere sessualmente liberi, nel ventunesimo secolo, vuol dire avere il diritto di fare del sesso orale a 14 anni».

Siamo in diritto di chiederci se una simile «liberazione» non si sia in realtà ritorta contro la donna. La Hargot ne è fermamente convinta: «La promessa «il mio corpo mi appartiene» si è trasformata in «il mio corpo è disponibile»: disponibile per la pulsione sessuale maschile, che non è ostacolata in nulla.

La contraccezione, l’aborto, il «controllo» della procreazione non pesano che sulla donna. La liberazione sessuale ha modificato solo il corpo della donna, non quello dell’uomo. Con la scusa di liberarla. Il femminismo egualitario che bracca i «macho» vuole imporre nello spazio pubblico un rispetto disincarnato della donna. Ma è nell’intimità, e specialmente nell’intimità sessuale, che si vanno a ristabilire i rapporti di violenza. 

Nella sfera pubblica si esibisce rispetto per le donne, in privato si guardano film porno dove le donne sono trattate come oggetti. Introducendo la guerra dei sessi, in cui le donne si sono messe in competizione diretta con gli uomini, il femminismo ha destabilizzato gli uomini, che ristabiliscono il dominio nell’intimità sessuale. Il successo della pornografia, che rappresenta spesso atti di violenza verso le donne, il successo del revenge-porn e di Cinquanta sfumatura di grigio sono lì a testimoniarlo».


Thérèse Hargot è fortemente critica anche della «morale del consenso», per la quale ogni atto sessuale va considerato un atto libero nella misura in cui è «voluto». 

Secondo un diffuso senso comune, oggi il consenso individuale è il solo criterio che permette di distinguere il bene dal male. Je consens, donc je suis, dice Michela Marzano: acconsento, dunque sono. Questo nuovo «cogito» permissivo induce gli adulti ad abdicare alla loro funzione educativa e con la sua estensione indiscriminata mette in serio pericolo l’infanzia: «Coi nostri occhi di adulti, tendiamo talvolta a considerare in maniera tenera la liberazione sessuale dei più giovani, meravigliati dalla loro assenza di tabù. In realtà subiscono delle enormi pressioni, non sono affatto liberi. La morale del consenso in linea di principio è qualcosa di giustissimo: si tratta di dire che siamo liberi quando siamo d’accordo. Ma abbiamo esteso questo principio ai bambini domandando loro di comportarsi come degli adulti, capaci di dire sì o no. 

Ora, i bambini non sono capaci di dire no. 

Nella nostra società c’è la tendenza a dimenticare la nozione di maturità sessuale. È molto importante. Al di sotto di una certa età riteniamo che vi sia una immaturità affettiva che non rende capaci di dire «no». Non c’è consenso. Bisogna davvero proteggere l’infanzia».

Andando controcorrente, la giovane sessuologa arriva ad esaltare i metodi naturali, biasima il discorso femminista e la medicalizzazione del sesso indotta dalla pillola. Quest’ultima viene elevata a «emblema del femminismo, un emblema della causa delle donne». Ma della bontà di un simile feticcio, afferma tranchant, «c’è da dubitare, visti gli effetti sulla salute delle donne e sulla loro sessualità! Sono le donne che vanno a modificare il proprio corpo, e mai l’uomo. È una cosa completamente iniqua. È in questa prospettiva che mi interessano i metodi naturali, perché sono i soli a coinvolgere equamente l’uomo e la donna. Sono basati sulla conoscenza che le donne hanno del loro corpo, sulla fiducia che l’uomo deve avere nella donna, sul rispetto del ritmo e della realtà femminili. Lo trovo in effetti molto più femminista che non distribuire un medicinale a donne in perfetta salute! Facendo della contraccezione una faccenda unicamente femminile, abbiamo deresponsabilizzato l’uomo».

Non fa eccezione a questo quadro la pratica dell’utero in affitto, «perché sopprimere la madre sarebbe l’ultima tappa del dominio maschile», osserva la sessuologa-filosofa. Con la Gpa «un uomo può creare la vita senza una donna. Certo, ha ancora bisogno del «corpo femminile», ma non si tratta più di una donna, cioè di una persona umana che per principio non può essere utilizzata come un mezzo, quali che siano il fine e le modalità. Dopo il sesso con la prostituzione, le ovaie con la riproduzione artificiale, l’utero è l’ultimo bastione conquistato dalla volontà di disporre del corpo delle donne. La sottomissione delle donne a scopi commerciali o caritatevoli tocca il suo apogeo. Da madre diventa operaia, da donna diventa serva che risponde ai comandi e alle esigenze di coloro a cui appartiene il progetto di paternità».


Si tratta di un ritorno puro e semplice alla sottomissione precedente alle conquiste del femminismo? 

«In una certa maniera sì», replica la Hargot, ma è altrettanto vero che «senza il femminismo alla Simone de Beauvoir il ragionamento ideologico della «gestazione per altri» non sarebbe stato possibile». 

È stato questo femminismo ideologico a «fornire armi e strumenti propri a una logica liberale incontrollabile. Per arrivare qui c’è voluta la contestazione per separare il corpo dallo spirito, per denigrare le esperienze carnali a vantaggio dell’espressione onnipotente della volontà. Riducendo la riproduzione al suo carattere animale, negando l’esperienza umana e spirituale che essa porta in germe e a cui può addivenire, questa ha perduto il suo carattere sacro. 

Il corpo non è più che una cosa esteriore alla persona. Dopo essere stato frazionato, il corpo può ormai essere dato in prestito, può essere acquistato, affittato o venduto in parti di ricambio e secondo le esigenze di servizio. Le donne escono così dalla riproduzione per entrare in un rapporto di produzione, col rischio di vedere legittimato, generalizzato e istituzionalizzato lo sfruttamento del corpo. L’esito di questo femminismo che ha dimenticato l’essenziale si ritorce oggi in primo luogo contro le donne stesse: l’affascinante vittoria della volontà lascia intravedere un mondo disumanizzato in cui il valore della persona dipende solo dalla sua utilità».

Sulla questione dell’omosessualità, che oggi tormenta alquanto gli adolescenti, Thérèse ricorda quanto sia riduttivo identificare la persona con un orientamento sessuale: «“Essere omosessuale” è anzitutto una battaglia politica. In nome della difesa dei diritti sono state riunite sotto una stessa bandiera arcobaleno delle realtà diverse che non hanno niente a che vedere le une con le altre. 

Chiunque dica di “essere omosessuale” ha un vissuto differente, che si inscrive in una storia differente. È una questione di desideri, di fantasie, ma non è per niente una identità propriamente detta. Non bisogna porre la questione in termini di essere, ma in termini di avere. La questione ormai ossessiona gli adolescenti, costretti a scegliere la loro sessualità. La visibilità del «coming out» interroga molto gli adolescenti che si domandano «come si fa a sapere se uno è omosessuale, come sapere se lo sono?». L’omosessualità fa paura, perché i giovani si dicono «se lo sono, non potrò mai ritornare indietro». Definire le persone come «omosessuali» vuol dire generare dell’omofobia. La sessualità non è un’identità. La mia vita sessuale non determina chi sono».

Che fare dunque con i giovani? Bisogna aiutarli a svilupparsi sessualmente, magari coi soliti corsi di educazione sessuale? 

«Non bisogna insegnare agli adolescenti a svilupparsi sessualmente», replica ferma. Piuttosto «bisogna insegnare ai giovani a diventare uomini e donne, aiutarli a sviluppare la propria personalità. 

La sessualità è secondaria in rapporto alla personalità. Invece che parlare ai ragazzi di profilattici, di contraccezione e di aborto bisogna aiutarli a costruirsi, a sviluppare una stima di sé. Bisogna creare uomini e donne che possano essere capaci di entrare in una relazione reciproca. Non occorrono dei corsi di educazione sessuale, ma dei corsi di filosofia!».

Fonte: www.aurhelio.it

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it/